Nel 1987 un avvocato di nome Geoffrey Bowers citò in causa lo studio legale Baker & McKenzie, accusandoli di averlo licenziato con un falso pretesto, sostenendo invece che il motivo della dimissione fosse la sua affezione all’AIDS ed il suo orientamento sessuale.
Bowers morì a 33 anni, due mesi dopo che il processo ebbe inizio.
Ci vollero più di 6 anni per concludere la vicenda, quando alla fine, nel dicembre 1993, lo studiò fu condannato ad un risarcimento di 500.00 dollari, ovvero la somma totale che Bowers avrebbe guadagnato in tutti quegli anni, se fosse stato ancora dipendente.
Lo studio Baker & McKenzie però andò in appello, per rivedere la decisione.
Nel 1995 l’appello venne ritirato dopo che lo studio legale si accordò privatamente con la famiglia di Bowers per un risarcimento, vietando ad entrambi gli interessati di parlarne pubblicamente o rivelare dettagli dell’accordo.
Questo fu il primo caso, reso noto, di discriminazione legata alla malattia.
Tristemente simile, sempre nello stesso periodo, la storia invece di un altro avvocato, ovvero Clarence B. Cain, che fu licenziato dallo studio Hyatt Legal Service, dopo che i suoi superiori scoprirono che era affetto da AIDS.
Cain vinse la causa proprio prima di morire.
Avrete probabilmente capito di quale film parleremo oggi, una storia intensa, commovente, forte e maledettamente vera, che a pochi giorni di distanza dalla giornata mondiale contro l’AIDS (1 dicembre) ci fa riflettere e penare a quanta strada sia stata fatta per combattere tabù e pregiudizi.
Philadelphia ha deciso, seppur con alcune libertà, di unire i destini di questi due uomini vittime di discriminazioni e di farne un racconto incalzante, emozionante, drammatico e purtroppo veritiero.
La storia di Philadelphia, sebbene nel suo sviluppo ed intreccio sia di fantasia, è di fatto inspirata alla vicenda di Geoffrey Bowers, avvocato di Boston, con il quale il film condivide molti punti di contatto.
Di grande impatto emotivo e drammatico, il film si aggiudicò non solo moltissime nomination in tantissimi eventi, ma venne apprezzato e premiato tra gli altri ai Golden Globe, ai Bafta e alla Berlinale.
Philadelphia è il film che ha segnato gli anni ’90 e che è entrato di diritto nella storia del cinema mondiale, facendosi apprezzare in tutto il mondo per la sua delicatezza e per la profondità analitica degli argomenti trattati.
Uscito nel 1993, questo film era per lo più indirizzato alle persone che fossero scettiche o che avessero convinzioni distorte circa l’AIDS, sensibilizzando il pubblico verso questa malattia.
La trama
Il film ruota attorno alle vite di due avvocati: Andrew “Andy” Beckett (Tom Hanks) e Joseph “Joe” Miller (Denzel Washington), entrambi di Philadelphia. Il primo è brillante, esperto nel diritto, socio del prestigioso studio legale Wyant & Wheeler e benvoluto da tutti i suoi capi; il secondo lavora in televisione e sceglie sempre casi in piccolo, che non gli consentono particolari sbocchi per quanto riguarda la sua carriera.
Andy è gay e convive da anni col suo compagno Miguel; Joe è sposato con Lisa e ha da poco avuto una bambina, Larice.
All’inizio del film i due, che si conoscono solo di fama, si scontrano per l’impresa di ristrutturazione Kendall, e la causa viene vinta da Andy. Quella sera stessa, in ufficio, gli viene offerta l’opportunità di lavorare sul caso Highline contro Sander System, ma sarà il suo ultimo trionfo, perché già da allora uno dei suoi capi nota una lesione sulla fronte di Andy, la prima di una lunga serie.
Nei giorni successivi Andy si impegna strenuamente nella causa e al tempo stesso pensa di nascondere le lesioni (causate dall’AIDS) ai suoi colleghi. Questi ultimi, però, memori di un caso precedente, si accorgono della sua malattia e lo licenziano facendolo passare per incompetente nascondendo il ricorso di quella importante causa. Andy non ci casca e cerca un avvocato per citare in giudizio i suoi ex datori di lavoro e denunciarli per soluzione illegittima del rapporto di lavoro.
Andy, dopo essere stato rifiutato da ben nove avvocati, si rivolge allora a Joe Miller e le strade dei due uomini finiscono per incrociarsi di nuovo. Joe, inizialmente riluttante, decide di affrontare il caso sfidando i pregiudizi nei confronti dei gay e dell’AIDS all’interno della società, ma anche di se stesso.
Durante la fase finale del processo, Andy si sente male in aula e viene ricoverato in fin di vita all’ospedale. Circondato dai suoi familiari che avevano accettato la sua malattia e il suo orientamento, Andy muore pochi giorni dopo il verdetto finale del processo nel quale risultava vincitore, grazie al lavoro svolto dal suo collega e amico Joe.
Il film si chiude con il ricevimento in suo onore dopo il funerale nel suo appartamento, dove tutti i famigliari, amici e l’avvocato Miller con la sua famiglia, gli rendono omaggio davanti ad un video girato quando Andy era un bambino e giocava felice.
Scelte difficili
Quello che più di tutto ci colpisce guardando il film, è senz’altro la profondità, l’intensità ed il trasporto con il quale Hanks interpreta il suo personaggio.
Vederlo sfiorire minuto dopo minuto fa un certo effetto, ma nella realtà, questo cambiamento fisico, è costato molto di più al divo di Hollywood.
Per interpretare il ruolo da protagonista infatti, Tom Hanks, dovette fare un duro ed intenso lavoro, perdendo 12 chili per rendere più credibile e veritiera la storia e lo sviluppo del suo personaggio.
Al contrario, a Denzel Washington invece, forse perché il contrasto fosse più evidente, fu chiesto di guadagnare qualche chilo; mangiava spesso barrette di cioccolato proprio davanti a Hanks che, nel frattempo, moriva di fame.
Per rendere la storia ancora più toccante e veritiera inoltre, furono addirittura scritturati dei malati veri di AIDS che hanno partecipato alla realizzazione del film. Tuttavia, la maggior parte di loro era in stato terminale, tanto che diversi morirono pochi mesi dopo il termine delle riprese, davvero triste a pensarci.
Musica, attori, scene
Pensare che in origine, Demme voleva ingaggiare un attore comico nel ruolo di Joe Miller perchè sarebbe stato un buon controbilanciamento per Tom Hanks, che era già stato scelto.
Demme aveva preso in considerazione Bill Murray e Robin Williams, ma quando Denzel Washington mostrò interesse per il ruolo, decise di ingaggiare lui.
A dire il vero anche per il ruolo del protagonista Demme scelse all’inizio un altro attore; voleva infatti che fosse Daniel Day-Lewis ad interpretare il ruolo di Andrew.
Per fortuna potremmo dire, l’attore rifiutò l’offerta per poter recitare in Nel nome del padre (1993) regalandoci quella fantastica interpretazione di Hanks che abbiamo poi avuto modo di vedere interpretare, con la stesso trasporto, altri ruoli drammatici, come in Cast Away, Il miglio verde o Salvate il soldato Ryan.
Probabilmente il regista Jonathan Demme voleva che il film venisse visto da persone che non avessero familiarità con l’AIDS, perché prendessero atto di quanto fosse un malattia atroce e molto difficile da affrontare.
Anche per questo chiese a Bruce Springsteen di occuparsi della colonna sonora: aveva l’idea che il musicista avrebbe potuto fare da traino per un tipo di pubblico che non era abituato a vedere sul grande schermo un uomo gay malato di AIDS.
Tanto Philadelphia quanto il brano The Streets of Philadelphia aiutarono dunque ad accrescere la consapevolezza dell’AIDS, perché avrebbe portato alla visione del film un pubblico che normalmente non lo avrebbe visto, grazie a quella canzone.
La canzone di Springsteen ha vinto diversi premi; è il secondo brano ad aver vinto i tre primi premi principali – Oscar, Golden Globe e Grammy – dietro a Let the River Rundi Carly Simon per Una donna in carriera (1988).
L’intera colonna sonora del film invece, è stata composta da Howard Shore e ad essa si sono affiancati i brani di Springstreen e Neil Young.
Memorabile la scena della danza che è stata ripresa con musica vera in sottofondo.
Jonathan Demme decise infatti di registrare la scena dell’opera dal vivo, in modo che Hanks potesse ottenere una performance migliore con la musica, ma questo si è dimostrato estremamente complicato nel montaggio, poiché la musica viene aggiunta in post-produzione.
“Fu in quel dolore che a me venne l’amore, una voce piena d’armonia dice: vivi ancora, io sono la vita… le lacrime tue io le raccolgo. Sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Sorridi e spera, io sono l’amore.”
Altra nota di veridicità è rappresentata dal fatto che, tutte le scene in tribunale, sono state effettuate all’interno di una vera corte di giustizia.
Nessuna scena è stata ricreata sul set e tutto ha avuto luogo in un vero tribunale.
Il fatto che il film abbia avuto il “coraggio” di sdoganare un tema così delicato come quello dell’AIDS e dell’omosessualità, non significa tuttavia che tutti fossero pronti a farlo.
Molte scene volte a portare sullo schermo una relazione più intima tra Andrew e Miguel ad esempio, sono state tagliate dal montaggio finale per volere dello studio… e c’è dell’altro.
Provarono anche a bloccare l’assunzione di Ron Vawter, che nel film interpreta Bob Seidman, perché sieropositivo.
Jonathan Demme a questo punto si infuriò e sottolineò quanto questa scelta sarebbe stata ipocrita di fronte al messaggio che il film voleva trasmettere.
Forse proprio per sfidare questa mentalità bigotta e retrograda, Demme decise anche, nella scena della festa in maschera, di far vestire a Andrew e Miguel (Antonio Banderas) l’uniforme militare statunitense che, udite udite, quando il film è stato girato era vietato alle persone omosessuali, che quindi non potevano unirsi alle forze militari degli Stati Uniti.
Due Oscar e grandi incassi al botteghino, dimostrano tuttavia che la storia ha funzionato, ed il fatto che ancora oggi, a distanza di tanti anni, Philadelphia sia considerato un vero e proprio manifesto della consapevolezza sull’AIDS, la dice lunga.
Certo, fa riflettere che sia un film a far riflettere su temi così delicati e scottanti, e non la vita di tutti i giorni, ma se questo può essere servito, serve e servirà a far aumentare la consapevolezza delle nostre azioni, ben venga.