Ci sono stati diversi registi a cui il cinema è fortemente debitore, tra i più importanti c’è sicuramente il regista e sceneggiatore svedese Ingmar Bergman.
Nel corso della sua lunga carriera, fu autore di opere di profonda introspezione psicologica in cui rappresentò con abilità e senso del dramma, la tensione interiore e l’angoscia dell’individuo. Una vita lunga, che iniziò nel 1918 e che si concluse nel 2007 a ben 89 anni d’età, e che fu certamente complessa e turbolenta, a partire dal rapporto conflittuale con i genitori e la fede, infatuazioni politiche pericolose, come quella che per un certo periodo ebbe per Hitler, senza dimenticare i gravi problemi di regime fiscale e lle altrettanto pesanti crisi depressive che lo portarono sull’orlo del baratro, e per ultimo, ma aspetto certamente non meno importante, una vita sentimentale e familiare decisamente turbolenta con cinque mogli e nove figli.
Tutta questa intensità e tensione nervosa la possiamo ritrovare in tutta la sua opera, perché una vita creativa porta sempre con se pesanti eredità anche nella vita privata, come giustamente affermava un altro grande artista suo contemporaneo come Leonard Bernstein, e il cinema per Bergman fu il suo sfogo naturale, ed in cui trovò enorme clamore e riconoscimenti importanti a livello mondiale per l’indiscussa potenza della sua forma d’arte.
Durante la sua carriera diresse film di notorietà internazionale come Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957), Persona (1966), Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1973). Tre suoi film vinsero addirittura l’Oscar come miglior film straniero: La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1961) e Fanny e Alexander (1982), senza dimenticare altri premi prestigiosi che raccolse nella sua lunga carriera, tra cui quattro Golden Globe, un premio BAFTA, due David di Donatello, due Emmy e un Tony.
Non bisogna nemmo dimenticare che la sua influenza creativa, è continuata ben oltre le porte della propria vita terrena, continuando ad ispirare direttamente con riproposizioni moderne dei suoi film o indirettamente, ma con richiami evidenti alla sua arte cinematografica, perché ogni grande artista lascia la sua impronta da seguire al mondo che verrà dopo di lui.
Ora che abbiamo un’idea generale sul grande cineasta svedese, possiamo davvero incominciare a vedere attraverso una carrellata di suoi film, gli aspetti più interessanti, le trame e le curiosità che girano attorno ad essi, non dimenticando però cosa c’è stato prima di lui e che direttamente o no, ha influenzato il suo cinema e quel film nel particolare, ma analizzeremo anche il mentre e poi cosa è avvenuto dopo di lui, perché se è vero che nulla si crea e nulla si distrugge, e altrettanto innegabile che dopo Bergman, il cinema non è più stato lo stesso.
Monica e il desiderio : Lo scandalo di una donna libera
Ieri: La donna, le pericolose allusioni e il cinema, un triangolo proibito.
Una rivoluzione europea fuori dai confini morali europei
Il tema dello scandalo e di queste donne libertine nei primi anni nel Novecento, era decisamente un osare non da poco, in particolare dagli anni trenta in poi si incominiciarono a produrre diversi film che incominciarono a trattare la donna come una figura non solo destinataria di attenzioni, ma anche produttrice e in alcuni casi provocatrice diretta di queste, e questo nuovo modo di vedere la donna portò con se non pochi scandali, censure, prigione e in alcuni casi veri e propri casi di stato.
La cosa certamente da evidenziare e di non poca importanza, è che questi esempi “poco edificanti” per il tempo, provenivano tutti da attrici europee, ma spesso si svilupparono in contesti molto lontani dalla tradizionale civiltà occidentale in luoghi ai margini a migliaia e migliaia di chilometri distante da essa, in contesti esotici o comunque posti poco raccomandabili, a cui il “buon mondo europeo” era estraneo.
I più moderni Stati Uniti, terra da sempre di nuove opportunità, per esempio negli anni trenta offrivano una certa apertura verso questi temi, una su tutte a sdoganare questa emancipazione femminile fu certamente l’androgina figura di Marlene Dietrich che, emigrata forzatamente dalla Germania nazista agli Stati Uniti, nella sua versione americana incominciò ad interpretare ruoli sempre più androgini, non soltanto dal punto di vista del vestiario, ma lasciandosi ad andare a veri e propri atteggiamenti sempre più scandalosi, come il prendere l’iniziativa in maniera sfacciata con uomini o donne che fossero, con giocoso compiacimento da entrambe le parti.
Non è il caso che il primo bacio saffico nel cinema lo diede proprio lei in Marocco nel 1930, seppur giocosamente e senza impegno, ma visto con gli occhi del tempo non fu certamente un atto poco audace da parte della grande attrice tedesca, e non è nemmeno un caso che il film portasse il nome di uno stato africano, quindi del terzo mondo, e che perciò da un certo punto di vista occidentale, era considerato alla stregua di un atteggiamento provocatorio, deprecabile certamente, ma tuttosommato accettabile perché lontano dal “mondo civilizzato” e quindi riconducibile ad un eccesso personale di un singolo e nulla di più in un contesto geografico perlopiù particolare.
Un altro esempio che certamente dovette influenzare lo stesso Bergman vent’anni dopo, fu certamente quello che gli lasciò una sua conterranea sempre ovviamente negli Stati Uniti.
La grande attrice Greta Garbo, svedese di nascita come lo stesso regista, dapprima affermatissima attrice di film muti, ma che con l’avvento del sonoro poté reinventarsi, lasciando uscire dal suo bagaglio interpretativo ruoli assolutamente rivoluzionari, come fu La Regina Cristina, che uscito sul finire del 1933 ripercorreva, ovviamente reinterpretandola per i canoni dell’epoca, la storia della Regina Cristina di Svezia vissuta nel Seicento che tra i vari atti audaci di cui si macchiò, figuravano lo scappare da un matrimonio combinato, girare per il paese in abiti maschili e un bacio omosessuale.
Dentro l’Europa
In Europa però non tardò ad arrivare anche lì, una rivoluzione culturale di questo tipo, e probabilmente il primo di tale dimensione a creare indubbio scalpore fu Estasi del 1933, di Gustav Machatý, film cecosolovacco, che fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1934.
Se il titolo poteva già essere indicatore di un qualcosa di proibitivo e fuori dal controllo della ragione, la visione di un film in cui Hedy Kiesler, la quale diventerà famosa con il nome di Hedy Lamarr, fa il bagno al fiume, vaga per i boschi e che, con il suo corpo statuario, si muove sinuosa davanti alla telecamera, poteva in circostanze normali si magari provocare qualche malcontento a qualche benpensante, ma nulla di eccessivamente turbativo tutto sommato.
Il grande problema era che in tutte queste attività la donna è completamente nuda e questo provocò un’indignazione generale alla kermesse veneziana e gli organi di stato e religiosi ai quali sottostava.
Un intero movimento si mosse contro quel film: dalla riprovazione del vescovo della città lagunare, arrivando al disappunto di non poco dopo conto del Duce che, dopo averlo visionato personalmente, ne impose immediatamente la proibizione. D’altronde una visione del genere, per quanto bellissima e angelica fosse la Lamarr anche in quel ruolo, rimaneva comunque decisamente lontana dall’immagine dell’angelo del focolare che aveva in mente Mussolini, in particolare quando si trattava di pensare al ruolo della donna all’interno del mondo fascista.
Un esempio di rivoluzione italiana
Sempre nello stesso anno, il 1934 negli Stati Uniti, casualità o no che fosse, uscì un romanzo decisamente scabroso per i tempo, quello dello statunitense James M. Cain, Il postino suona sempre due volte, che fu preso come soggetto per il primo film famoso di Luchino Visconti, Ossessione del 1943, il primo film del ciclo neorealista con cui il grande regista milanese divenne famoso al grande pubblico. Questo lesse il romanzo di Cain in versione francese e decise di farne un film, riadattandolo ovviamente al contesto italiano e con sue particolari reinterpretazioni personali che diede rispetto alla versione originale del romanzo.
Il film venne presentato a Roma, in anteprima mondiale, nella primavera del 1943, ma visto che nel periodo tardo-fascista non si voleva apparire troppo bigotti e censori verso ogni forma d’arte, dato che non c’erano apparentemente attacchi diretti al regime, e visto in ultimo che la politica restava completamente fuori dall’intreccio del film, le autorità censorie-burocratico fasciste ne autorizzarono sorprendentemente la distribuzione.
Alcuni mesi dopo il film viene quindi proiettato nelle sale di alcune città del Nord Italia, ma soltanto l’anno successivo raggiunse Milano, sotto l’occupazione tedesca. Il film restò peraltro nelle sale cinematografiche italiane per due o tre sere o addirittura per sole 3 ore, ma poi visto che si incominciò a capire che il film era un vero e proprio atto di insubordinazione verso i puritani costumi fascisti, venne immediatamente dapprima sottoposto a tagli e ad una censura feroce, per poi venire definitivamente tolto da tutte le sale.
D’altronde per le autorità fasciste e della chiesa, una volta rianalizzato il film con la giusta attenzione, gli argomenti per bandirlo non mancarono di certo, ma divennero plurimi. In particolare era il protagonista maschile Gino, interpretato da Massimo Girotti, ad essere oggetto della discussione: effeminatezza del personaggio e caratterizzazione sensuale del protagonista, sia nel suo modo di comportarsi, che nel suo modo di essere sempre poco vestito, c’è il tema dell’adulterio, sguardi languidi ed espliciti di donne al corpo maschile, e cosa di non poco, l’omosessualità del personaggio dello spagnolo, sebbene in questo caso ci siano solamente sguardi di questo a farne intuire presunte inclinazioni omosessuali del compagno di cabina.
Insomma un uomo che diventa oggetto sensuale del film da parte di tutti, donne e uomini che fossero, che non domina, ma subisce la scena, era un atto decisamente trasgressivo e controcorrente rispetto ai canoni dell’epoca.
Questo è il contesto in cui si muoverà Ingmar Bergman, dieci anni dopo, il quale a suo modo tenterà di dire la sua, sul modo di vedere la donna e le relazioni di essa con il mondo maschile.
Bergman: Monica e il desiderio, una donna impossibile da controllare.
Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, Un’estate con Monica), è uno de primi film famosi del grande regista svedese, del 1953, un film-scandalo, soprattutto a causa della insolente sensualità dell’attrice Harriet Andersson che, girandosi spontaneamente verso la camera, regalerà uno dei migliori primi piani di sempre, a detta proprio dello stesso regista.
L’attrice, a quel tempo, appena ventenne e Bergman si legherà sentimentalmente poi a Bergman e collaborerà in nove film realizzati in collaborazione con lui, tanto da diventarne una delle sue attrici preferite.
Una mancata storia d’amore tra frustrazione cittadina e una complicata selvaggia libertà
La storia vira su una primavera in divenire, e l’apparente storia d’amore tra un ragazzo, Harry (Lars Ekborg), un ragazzo timido e serio che lavora come facchino, e lei la protagonista, la frizzante e sensuale Monica (Harriett Anderson), la quale anch’essa lavora come impiegata in un’altra azienda, in cui però già si intuisce fin dalle prime battute che sia una ragazza molto libera, insomma il modello Greta Garbo e Marlene Dietrich viene preso alla lettera e continuato, stavolta in un contesto portuale e soprattutto europeo. Smaliziata, fintamente ritrosa alle attenzioni degli uomini, prende l’iniziativa con Harry e tra una scusa e un’altra incomincia a flirtare con lui.
Possiede tutte caratteristiche tipiche di un nuovo tipo di donna: fuma, le piace andare al cinema e sebbene dai suoi gusti cinematografici sembri una ragazza romantica, di fatto i suoi atteggiamenti tradiscono una natura estremamente superficiale della vita, e nonostante Harry non possa offrile granché e non appaia come il classico uomo forte che ci aspetteremmo nei più classici dei film del tempo, ma piuttosto appare fragile e sottomesso da una vita che sembra schiacciarlo ad una pallida monotonia, la ragazza proprio forse per questa “debolezza mascolina“, può esercitare il suo potere femmineo in tutto e per tutto, dominando ogni aspetto della vita di coppia.
Lei è quella tarda primavera che lo sveglia da quel torpore invernale che sembra averlo investito sebbene sia giovanissimo, l’insegnamento dei maestri che hanno preceduto Bergman nel modo di rappresentare queste donne così libere è evidente, non è lui che trascina lei in qualche peccaminosa avventura, ma casomai viceversa, segno di come i film dei decenni precedenti abbiano lasciato un segno e una traccia da seguire per chi decenni dopo l’ha perseguita, come Bergman fece per i suoi scopi cinematografici nella prima metà degli anni cinquanta.
Alla fine decidono di fuggire dalle loro tristi vite e lasciano la città ed incominciano a vivere un’estate selvaggia lontano da tutti a bordo del motoscafo del padre di Harry, partendo senza impedimenti e senza freni all’avventura, cercando di fuggire da quella vita mesta che li aveva contaminati e anastetizzati in quell’anonima citta portuale: l’arcipelago di Stoccolma li aspetta, con la sua forza primordiale che li invita a tornare in quella specie di Eden da cui i nostri progenitori erano stati banditi alle origini della civiltà.
C’è un ritorno allo stato brado, tra le scene che ci vengono proposte di questa estrema libertà tanto agognata e finalmente trovata, c’è lei, Monica, che completamente nuda si lava in uno spiazzo dì acqua, probabilmente un modo diretto o indiretto per riprendere l’esempio della Lamarr di vent’anni prima.
Cantano, fanno l’amore, lui si fa la barba alla vecchia maniera, e fatto interessante che una relazione nata nel segno del caffè, così era infatti incominciata in un bar del porto, curiosamente con la stessa scena Bergman decide di mostrare uno dei primi momenti di vita insieme in questo nuovo eden scandinavo in cui due giovanissimi ragazzi hanno deciso di vivere.
Probabilmente una scelta non casuale e per dirci che tutto sommato le scelte e i gesti sono sempre gli stessi, è cambiata solo la modalità con cui si svolgono queste azioni, ma il progresso, nel bene e nel male ha cambiato solo il modo in cui si compiono certi gesti, non l’attività in se per se.
Tutto sembra andare insomma per il meglio, ma ad un certo punto la magia svanisce ed incominciano ad esserci i primi problemi: non sono figli naturali di quel contesto, sono vissuti e cresciuti in un contesto cittadino, quindi se inizialmente può sembrare tutto magnifico, ci sono le regole della città a vincolarli anche a distanza e a farli tornare alla dura realtà. Sognano la libertà e di creare attorno a loro una numerosa famiglia, ma per fare ciò servono i beni di necessità che solo la vita di città offre con un lavoro, una casa e tutti i servizi tipici di un welfare state.
Lei diventa col passare del tempo sempre più una selvaggia: mena un intruso difendendo il compagno, segno di come tra i due, sia lei ad essere quella che comanda, sebbene poi anche lui goffamente provi a riprendere il ruolo di maschio alfa e in un qualche modo riesce a rivendicare il suo status di maschio forte.
Incomincia poi a rubare, esasperata da una condizione che la vede affamata e perlopiù incinta, ma una volta beccata non sembra nemmeno in grado di comunicare a parole con altri esseri umani.
Un’estate in apparenza eterna da ricordare, ma che diventa un sogno destinato a finire con l’autunno, come un film destinato a finire come é iniziato. Come fosse un modo del regista per avvisarci; un sogno è una cosa, ma la vita come un film ad un certo punto finisce, e bisogna tornare alla realtà di tutti i giorni, quindi è normale avere uno spirito avventuroso, ma senza una base solida a cui attccarsi, il rischio di rimanere in un limbo tra la vita civile e quella selvaggia, è un gioco che non vale la candela.
Una domanda che torna costantemente nel film è questa: perché altri hanno tutto e altri non hanno niente? Una domanda che si ripete nel film, senza risposta, perché una risposta vera e propria non esiste e nessuno c’è l’ha, nemmeno il regista, essendo una condizione del mondo a cui è impossibile rispondere da un punto di vista umano, limitato per natura.
Ritorno alla dura realtà
Una zia di lui è pronta riaccorglierli sotto la sua ala, quindi una volta i due giovani tornati con la coda tra le gambe alla vita reale, vorrebbero riadattarsi alla vita civile, e come prima cosa il passo è sposarsi, ma sono troppo giovani anche per questo, quindi solo con una delega firmata della zia possono iniziare una nuova vita, stavolta in autunno, quindi finito il sogno di libertà estivo, incomincia il mondo dei grandi fatto di responsabilità e doveri.
Harry si adatta, incomincia ad avere un lavoro come ingegnere, viene finalmente trattato bene dai suoi colleghi a dispetto di quello che capitava sul posto di lavoro precedente; di notte studia, di giorno lavora e nel frattempo nasce pure una bella bambina, e anche qui troviamo una virata piuttosto decisa rispetto al solito.
Lui la vorrebbe chiamare come lei, Monica, lei invece June, e alla fine si decide per un doppio nome, ma con quella scelta di June come primo nome, è un ulteriore segno di come il comando resti sempre nelle mani di una donna forte, segno da parte di un’estate che in lei non è mai finita, essendo simbolicamente il nome della piccola riconducibile a giugno, il primo mese estivo, il principio di esso, magari come buon augurio per la piccola di vivere lei si un’eterna estate da donna libera.
Monica però questa vita da mamma a tempo pieno non piace, non sembra portata al ruolo di madre; trascura costantemente la creatura che disperata piange e di cui sembra amorevolmente curarsi al contrario solo lui, Harry, che tra le altre cose deve fare anche da “mamma” alla piccola June.
Altro segno ulteriore come una nuova generazione di donne si ribelli a quella condizione, che le vuole per istinto necessariamente solo mogli e madri amorevoli, della bambina al massimo se ne prende cura la zia di Harry, una donna lei si della vecchia guardia, che volente o no, rispetta i dettami della società che vede la donna sempre pronta a prendersi cura dei bambini che le vengono affidati.
Lei vuole continuare a perseguire una vita normale come una ragazza della sua età, fatta di vestiti eleganti e senza alcuna curanza delle necessità della contemporaneità, come l’affitto che non paga e che in altre condizioni e in altri film più classici, un altro tipo di donna più ligia ai dettami dell’epoca, avrebbe certamente pagato, rinunciando per il bene della famiglia ai propri sfizi, non indispensabili per la sopravvivenza immediata della famiglia.
Non contenta di questo atteggiamento ostile verso il ruolo di madre e di moglie che le imporrebbe certi doveri, lo tradisce pure spudoratamente, ed Harry esasperato da questa mancanza di disciplina, seguendo anche involontariamente i consigli di uomini che incontra nei bar e che sembrano con i loro discorsi prendersi gioco di lui, la picchia, sebbene immediatamente per questa sua istintiva decisione, se ne addolori e se ne penti subito, non essendo nemmeno lui un uomo del vecchio corso.
Ruoli invertiti, medesima infelicità
L’infelicità regna sovrana in questo film, a sintomo di ciò ci sono soltanto le azioni dei due a testimoniarne la tristezza di una situazione infinitamente più grande di loro, ma ci sono gli sguardi persi di Harry, quando ha la figlia in braccio o quando scopre la moglie lo tradisce, segno di una vita idealizzata che nel concreto si è disgregata miseramente.
Harry è il personaggio che potremmo definire positivo del film; è di fatto un uomo a metà, un classico uomo novecentesco diviso, in bilico costantemente tra l’essere l’uomo forte e moderno che si prende cura della propria famiglia, mentre dall’altra continua a mantenere una natura sensibile e dolce, ma che secondo lo sguardo di Bergman un uomo del genere con questa doppia natura in se, sia destinato inevitabilmente ad una perenne infelicità.
Senza infatti quella leadership e quell’arroganza virile tipica dell’uomo di famiglia, una donna come Monica sfuggirà sempre completamente ai suoi doveri, esasperando il suo ruolo di donna moderna che fuma, seduce gli uomini, interessata solo ai vestiti e al suo aspetto, completamente assente come madre, e che come ultimo gesto estremo di libertà, addirittura abbandonerà il tetto coniugale e i suoi due ruoli di moglie e madre, lasciando Harry e la sua bambina soli ed in balia del mondo.
Un uomo distrutto da questa sua natura a metà, ma destinato forse senza di lei, ad essere un buon padre nonostante tutto.
La regia
C’è come capiterà spesso nel cinema di Bergman, una scelta di circolarità da parte del regista, il film infatti inizia in un modo e finisce nello stesso modo, uno sguardo allo specchio tra il triste e il sereno da parte di lui, mentre lei all’inizio del film guarda lo stesso specchio ma per evidenziare apparentemente solo la propria esteriorità, lui insieme alla figlia lo osserva invece nella sua interiorità alla fine, tra presente incerto e passato felice di lei nuda e libera, quella parte di lei da ricordare nonostante tutto.
A far da contorno a tutto ciò un carrozzone, che come in una famosa canzone di Renato Zero, che lo vogliamo o no, va sempre avanti in una maniera e in un’altra, nonostante la vita che continua indifferente la sua strada.
Sembra un lungo flashback nel flashback, come se quello specchio riflettesse tutto sommato sempre la stessa storia, e che sempre lui ci racconti una storia che lui già conosceva, ma che riteneva giusto farci conoscere, forse per farci riflettere, o forse solamente per raccontarci che come in un film, tutto ha un inizio e tutto ha una fine, il più delle volte piuttosto triste.
Lo sguardo ovunque sia diretto, che sia uno specchio reale o nel vuoto a favore di telecamera, l sembra dirigersi sempre in una comune infelicità, l’unica costante su cui entrambi viaggiano, sebbene su onde di frequenza diverse, perché anche nella medesima infelicità coniugale, come affermava Tolstoj nel celebre incipit in Anna Karenina, ci sono sostanziali e abissali differenze.
Anche lo sguardo ha una funzione importante del film: sembrano entrambi sguardi persi nella stessa maniera: quello di lui appare più perso per l’incapacità di non riuscire a gestire come capofamiglia le difficoltà della vita, quello di lei invece appare perso più nella superficialità, nella vanità delle cose e in ciò che non è stata in grado di essere, perché un conto è il desiderio, l’altro è il renderlo possibile nella vita reale, in mezzo a tutto ciò, un mondo di scelte.
Oggi: Dal Cahiers du Cinéma a noi
Il film di Bergman fu fin da subito altamente considerato, sia in positivo, che in negativo, e si può ben dire che quindi, avendo saltato il pericolo dell’indifferenza e dell’anonimato, avesse creato lo scalpore necessario per far parlare di se.
Prima che infatti che il Cahiers du Cinéma, la più importante rivista di critica cinematografica nata solamente due anni prima nel 1951, ci mettesse gli occhi sopra, il film non aveva goduto di una grossissima reputazione, e dato il tipo di donna che descriveva e il tipo di società in cui si inseriva, non stupisce che nel pubblico a cui veniva presentata, le reazioni fossero più negative che positive.
Il successo che ebbe in Svezia e l’accoglienza all’estero si fondarono in un primo tempo solamente sul malinteso dello scalpore erotico, che era in una qualche maniera giustificato dalla carica sensuale che emanava la protagonista, e da questo voler da parte del regista, a volte abbandonare il controllo della trama a favore del corpo di Harriet Andersson in particolare durante le sequenze dell’idillio estivo nell’arcipalago, con inquadrature da “neorealismo nordico” erano i motivi che inizialmente avevano creato più clamore a contorno del film, che sulla profondità della trama stessa.
Nemmeno a Los Angeles comunque passò inosservato questo film; lì diciamo il disgusto e il giudizio che la critica americana ebbe del film, lo si fece ben capire fin dal titolo dispregiativo che gli venne affidato: The Story of a Bad Girl, e fin da questo elemento, un po’ per provocare, un po’ per creare la giusta curiosità nello spettatore d’oltreoceano, il distributore decise di voler dare una connotazione negativa alla figura di questa donna europea, anche magari per fare da contraltare alle perfette e brave ragazze americane, senza dimenticare che gli esempi peggiori fino a quel punto, casualmente o no, almeno fino a quel momento venivano, da quel vecchio ed immorale continente.
Il distributore però pagò cara questa scelta: fu condannato infatti, una volta fatto uscire Monica e il Desiderio, ad una multa e soprattutto a un breve periodo di prigione, in particolare venne condannato per aver aggiunto alcune sequenze di nudo alle scene sulla spiaggia. Ricordiamoci che siamo ancora in un periodo in cui il Codice Hays dominava nel cinema americano, e certamente le scelte dei nudi integrali non dovettero far particolarmente piacere agli organi federali americani.
Tornando in Francia, a Montmartre, il film fece parlare parecchio di se e anche in maniera decisamente inaspettata: infatti sfruttando la copertina provocante della protagonista e le tematiche superficiali del film, all’entrata del cinema in quel quartiere a nord di Parigi in cui il film venne proiettato, si potevano addirittura trovare alcune prostitute in cerca di clienti, segno di quanto la forza del cinema e del cinema potesse spingere anche affari di decisamente altro tipo.
Emblematico da questo punto di vista fu proprio, il lavoro di uno dei collaboratori più importanti del Cahiers du Cinéma, François Truffaut, il quale venne colpito talmente da questo film, che in uno dei suoi capolavori, I quattrocento colpi del 1959, il pestifero Antoine Doinel, il giovanissimo protagonista del film, talmente ammaliato da quella bellezza conturbante che vede nel manifesto del film di Bergman, ruba da un cinema una foto di Harriet Andersson semi vestita in Monica e il desiderio, insomma il film non era decisamente passato inosservato in Francia, la patria dove il cinema aveva mosso i suoi primi passi più di mezzo secolo prima.
ll film, che ebbe distribuzione dal 1953, in Italia venne proiettato solamente nel 1961 e con ben 25 metri di tagli, e le scene tagliate potete immaginare bene che cosa potessero riguardare. La critica dapprincipio rimase molto divisa sul giudizio da dare al film, ma in seguito fu approfondito attraverso una sua rilettura durante una retrospettiva che la cineteca francese aveva organizzato, e venne quindi completamente riabilitato anche grazie l’eminente opinione di un altro grande cineasta francese del Cahiers du Cinéma, Jean-Luc Godard il quale dichiarò Bergman, il “cineasta dell’istante“, e su di lui e sul film scrisse:
«Ognuno dei suoi film nasce da una riflessione dei protagonisti sul presente, approfondisce tale riflessione attraverso una sorta di frantumazione della durata, un po’ alla maniera di Proust, ma con maggior forza, come se Proust fosse stato moltiplicato da Joyce e Rousseau insieme, e infine diventa una gigantesca e smisurata meditazione a partire da un’istantanea.
Un film di Bergman è, per così dire, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si dilata per un’ora e mezza. È il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti di mani.»
Quello che impressionò di più Godard in particolare, non furono tanto le scene di nudo della Andersson, ma quel lungo primo piano con cui Monika, tornata in città e sul punto di tradire il marito con uno sconosciuto, indugia con lo sguardo rivolto alla cinepresa e quindi a noi del pubblico, un espediente che colpì così tanto il regista di Pierre Le Fou, che lo stesse Godard riprenderà con Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro, altro capolavoro della Novelle Vague francese e scrisse a proposito di quello sguardo enigmatico della protagonista:
«Quegli straordinari minuti durante i quali Harriet Andersson, prima di tornare nuovamente a letto con il tipo che aveva lasciato, guarda fisso nella cinepresa, i suoi occhi ridenti svelati da sgomento, prendendo lo spettatore a testimone del disprezzo che ha di se stessa per aver scelto involontariamente l’inferno invece del cielo. È il primo piano più triste della storia del cinema.»
Bergman, sfruttò questo modo nuovo di interporsi con lo spettatore, inusuale per il cinema, ma abbastanza usuale nel teatro. Non va dimenticato che prima di fare il suo debutto nel mondo del cinema nel 1944, con la sceneggiatura di Spasimo di Alf Sjöberg, egli aveva già alle spalle ben 34 regie teatrali, in almeno 12 teatri diversi. Insomma il grande cineasta svedese sapeva di cosa parlava.
Il cinema successivamente dagli anni settanta in poi ebbe sempre poi meno remore ad affrontare certi argomenti, sebbene il rischio di una censura fosse sempre dietro l’angolo, ma la strada era aperta e grandi autori e registi del tempo si sentirono sempre più in dovere di osare sempre di più su questo tema.
Film come Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci del 1972 con la coppia Marlon Brando e Maria Schneider prima, e film come Il Postino suona sempre due volte di Bob Rafelson del 1981 con Jack Nicholson e Jessica Lange anche loro alle prese con scene a forte alto tasso erotico, fino ad arrivare a Nove Settimane e Mezzo di Adrian Lyne del 1986 con Mickey Rourke e Kim Basinger, fecero si che il film di Bergman e il suo Monica e il desiderio apparisse tutto sommato con gli occhi di uno spettatore ben allenato, un film decisamente innocente.
Una Monica oggi, dove trovarla?
Oggi si è arrivati a saghe in cui il sesso viene estremizzato, come la trilogia di Cinquanta Sfumature negli ultimi anni ha fatto, permettendo alla donna del nuovo millennio di essere decisamente più libera, andando ben oltre qualche nudo integrale, libera anche di sbagliare o di prendere decisioni impopolari e azzardate.
Un film strettamente contemporaneo, tra i tanti che potremmo prendere in considerazione e che assomiglia da un certo punto di vista almeno in alcune tematiche al film in questione a questa figura così rivoluzionaria come Monica può essere la figura di Amelia in La Bella Estate di Laura Luchetti del 2023.
Tratto dal grande romanzo di Cesare Pavese del 1949, in cui si racconta un’estate unica nella vita di Ginia ed Amelia, due figure femminili agli opposti che si incontreranno nella grande Torino del tempo e dove tra paure e scoperte, andranno incontro al loro vero io e al coraggio di essere se stesse, un po’ come fece Monica tanto tempo fa in Svezia, proprio negli stessi anni in cui anche lei visse un’estate speciale ed indimenticabile, e che le cambierà per sempre la vita.
Se Monica infatti venisse reinventata oggi, come sarebbe e fin dove si spingerebbe?
Magari un giorno il cinema ci darà risposte impensabili e dirette anche su questo, nel frattempo questo bel film della Luchetti, che potete trovare su Sky Cinema, può essere utile per poter ragionare su come a settant’anni di distanza da Monica, delle donne libere potessero essere rappresentate oggi, e curiosità nella curiosità l’interprete di Amelia, Deva Cassel, ha come madre una certa Monica Bellucci, quindi si può dire nel suo piccolo che la giovane attrice e modella raccoglie sia dalla madre, anche attraverso la sua indimenticabile Malena, che per altre vie, lo scomodo testimone della Monica di Bergman, in attesa di altre attrici che negli anni verranno e si alterneranno in film simili.
I film di Bergman, Truffaut e di altri maestri del cinema invece li potrete trovare sul canale di Mymovies ONE, dove potrete farvi un’idea ancora più chiara su quanto il cinema si sia evoluto dagli albori al cinema ai giorni nostri, anche sullo spinoso e sempre affascinante, ma controverso tema chiamato “Donna”, da angeli del focolare a femme fatale, c’è infatti un mondo pieno di eroine cinematografiche tra le più diverse da scoprire e riscoprire, ancora e ancora…