Fulci talks
Soggetto: Antonietta De Lillo, Marcello Garofalo; Sceneggiatura: Antonietta De Lillo, Marcello Garofalo; Musiche: Fabio Frizzi; Montaggio: Elisabetta Giannini, Andrea Campajola (Supervisione); Fotografia: Antonietta De Lillo; Suono: Silvia Moraes (Sound Design); Produttore: Antonietta De Lillo; Intervista: Antonietta De Lillo, Marcello Garofalo; Ricerche d’Archivio: Fabrizio D’Alessio; Produttore Esecutivo: Alice Mariani.
Sinossi
Nel 1993 il critico Marcello Garofalo e la regista Antonietta De Lillo intervistano a lungo in video l’esuberante sceneggiatore, regista, attore e paroliere Lucio Fulci. Un estratto di quell’incontro (30′) sarà presentato nel 1994 al Festival Cinema Giovani di Torino col titolo La notte americana del dottor Lucio Fulci. Nel 2021, De Lillo rimette mano alle otto ore totali del girato originale e presenta una versione rimontata, ritoccata ed espansa di quel fortunato incontro.
Ne esce un (auto)ritratto inedito di un grande e raffinato artigiano del cinema nel momento in cui vede finalmente la critica riconoscere alle sue pellicole lo status di film cult, che diventeranno punti di riferimento per un’intera generazione di registi e spettatori.
Il flusso di coscienza è una tecnica narrativa che consistente nella libera rappresentazione dei pensieri di una persona così come compaiono nella mente; questa tecnica venne usata, fra gli altri, da Virginia Woolf, James Joyce e Italo Svevo.
Guardando Fulci Talk si ha davvero l’impressione di assistere ad un monologo interiore, dove emerge, prima di tutto Lucio, con i suoi conflitti interiori, le emozioni, i sentimenti, le passioni e le sensazioni.
Fulci appare come un fiume in piena di ricordi, storie, aneddoti e racconti; un’enciclopedia parlante della storia del cinema, vissuta da chi il cinema lo ha fatto, vissuto, sviscerato e trattato in tutte le sue declinazioni.
Le domande che di tanto in tanto gli vengono rivolte, quasi disturbano l’attento spettatore, che viene letteralmente rapito dalla lucida e razionale narrazione di quest’uomo, inquadrato in piano medio su una sedia a rotelle.
L’autore di titoli leggendari come Urlatori alla sbarra, Non si sevizia un paperino, …e tu vivrai nel terrore – L’Aldilà! e Un gatto nel cervello non risparmia niente e nessuno, parla a ruota libera di tutto e tutti senza peli sulla lingua, dagli esordi nei primi anni ’50 come aiuto regia di Steno fino alle stagioni dei thriller morbosi e crudelissimi e degli horror truculenti.
Gli esordi
Ci tiene a mettere sin da subito le cose in chiaro Fulci, regista fin dentro al midollo spesso associato, per somiglianza fisica, a Orson Wells.
“Io sono un oggetto parlante, se mi dite vai, io vado”
Un uomo divertente e divertito, soprattutto nei camei che ha sempre amato interpretare nei suoi film, come in Voci dal profondo suo penultimo film, una specie di Cluedo in cui un uomo d’affari, avido e violento, viene trovato in fin di vita nella sua lussuosa villa suburbana e Fulci è nel ruolo del medico legale che fa l’autopsia al cadavere di Giorgio.
Uno strano punto di vista il suo, che vede il mestiere del regista come fatto da cinquanta persone che devono consumare un certo numero di milioni in un certo tempo a disposizione.
“Il regista deve essere scrittore e muratore, muratore perché fa la vita della troup, scrittore perché scrive.”
Subito si abbandona a racconti personali, e capiamo da dove nasce il genio Fulci.
“Io sono nato a Roma perché mia madre scappò con un cugino scioperato, che faceva l’attore minore che era mio padre, e generò me… la mia famiglia odiò mia madre e la diseredò, perché era scappata col cugino…
Sono cresciuto in una famiglia di donne, perché gli uomini morivano tutti giovani e io la prima cosa che vidi furono i lutti, perché in Sicilia si tengono i lutti per 20 anni, mia nonna l’ho vista sempre vestita di nero…
Io vivevo con mia madre, mia nonna e mia zia senza avere mai complessi…
Le prime cose che vidi erano le cose mestruali, le pezze e le cavigliere che mettevano al tempo quando avevano il periodo e che adesso non si usano più. Una famiglia di femmine, tutte antifasciste, con un cugino tenore per cui son divenuto melomane.”
Racconta di come, a Roma, per caso conobbe Truman Capote (pseudonimo di Truman Streckfus, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e attore statunitense) definito come “un nano che parlava un ottimo italiano” e di come si innamorò di una ragazza bellissima che però non lo corrispondeva.
Deluso e amareggiato da quel rifiuto, Fulci legge su un giornale che erano aperte le iscrizioni per entrare nel Centro Sperimentale, e fece l’esame con Luchino Visconti che lo accettò, facendolo diventare il suo pupillo.
Poi l’incontro, fortuito e fortunato, con Steno, uomo piccolo
“l’aiuto regista non va d’accordo con Totò e abbiamo chiamato lei”
I ricordi si intrecciano agli aneddoti, curiosi quanto strani, come quando Fulci racconta di quella notte in cui, insieme a Tonino Delli Colli, aspettava che mettessero le luci in Piazza di Spagna per girare un film con Totò, che amava girare di notte, e da una macchina vide scendere lei, quel grande amore perduto anni prima e grazie al quale aveva deciso di fare il cinema.
“Le tesi la mano, e lei mi mise 50 lire in mano. Questa cosa mi è sempre rimasta impressa, perchè la donna per la quale avevo fatto il cinema mi aveva messo 50 lire in mano, perché il cinema ha diverse facce”
Il rapporto con Totò
Quello con Totò è stato un rapporto fatto di grande affetto e rispetto reciproco, macchiato però da un’atroce incomprensione che ad un certo punto ne ha per sempre compromesso la continuazione.
Con Steno e Totò, Fulci iniziò una duratura collaborazione che lo portò a scrivere una quindicina di sceneggiature, tra le quali quelle di Totò a colori, Totò all’inferno e Totò nella luna.
“Ho girato come aiuto una ventina di film di Totò, ne ho sceneggiati una decina e ho esordito perché lo voleva lui, ne I ladri.”
Fulci dichiarò in realtà che accettò la regia de I ladri perché si trovava in gravi difficoltà economiche, e che avrebbe preferito continuare a fare lo sceneggiatore.
“Io mi ritengo un errore di Totò. Io ero tanto felice come sceneggiatore e mi toccò esordire alla regia…Lui mi volva molto bene,il nostro rapporto era di stima reciproca finchè non successero dei fatti strani.
Un giorno scrivo un film, Letto a tre piazze, dovevo farlo come regista, per me era un colpo magistrale essere chiamato alla Rizzoli come regista. Mi chiamò il produttore generale della Rizzoli e i disse che non potevo fare il film perché Totò non mi voleva.
Totò non mi vuole?
Lo chiamai e si fece negare.
Dopo anni, incontrai Macario e gli chiesi di andare a domandare cosa fosse successo, perchè il film poi lo fece il maestro Steno.
Tornò e mi disse: Lucio si è fissato che tu hai avuto rapporti con Franca (Faldini, storico e travagliato amore di Totò)
Anni dopo, quando era ormai cieco, mentre giravano un altro film, riconobbe la mia voce e gridò : “Ehi Fulci, come stai? Siediti, parliamo. Lui stava girando Totò e Peppino divisi a Berlino.
So che ti sei sposato e hai due bimbe, e come sono?
Molto religiose, vanno ogni domenica in chiesa a pregare che muoia Totò… Si alzò e andò via”
Fulci definisce il Principe della risata come il genio della parola e mentre ne parla raspare dai suoi occhi il rammarico e il dispiacere per quel rapporto interrotto così bruscamente e che sarebbe potuto continuare, nel personale e nel professionale per molto tempo ancora.
Da Franco e Ciccio al Western al giallo
Negli anni sessanta, Fulci conobbe, in un Festival dell’avanspettacolo, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e pur non essendo il primo a scoprirli, lanciò definitivamente il loro duo, Franco e Ciccio, disponendo che Ciccio doveva essere il serio e il colto, mentre Franco doveva essere la spalla e lo stupido. Fulci in pochi anni diventò il regista preferito dal duo, dirigendo per la coppia una dozzina di film, il primo dei quali fu I due della legione.
“Il rapporto con Franco e Ciccio fu sempre di assoluta collaborazione, loro mi obbedivano… Io ritengo che Franchi e Ingrassia siano la cosa più storica della mia carriera, perché ci sarà una loro riscoperta.”
Ad un certo punto però Fulci avverte l’esigenza di interrompere la sua simbiosi con Ingrassia e Franchi, non perché non li stimasse, ma perché voleva tentare un altro genere e faticò molto per questo, perché un altro film dovette produrselo da solo.
Il risultato fu un western psicologico da titolo Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (1966) Interpretato da Franco Nero, Nino Castelnuovo e George Hilton e scritto da Fernando Di Leo, è considerato uno dei western italiani più violenti di sempre.
Fulci si illumina quando ne parla, perché fu un grande successo e una grande e personale soddisfazione per lui che, fino a quel momento, era conosciuto solo perché associato a Franco e Ciccio.
“È la storia di un fratello buono, uno cattivo e uno matto”
dice Lucio
“Rappresentò per me la rottura con tutti i generi”
Fulci è sempre stato un grande estimatore di Hitchcock e la sua ombra proiettata sul muro, in questa intervista, un po’ ce lo ricorda.
Probabilmente influenzato da questo grande regista, nel 1969 cambia ancora una volta genere, dirigendo il suo primo giallo, Una sull’altra, ispirato a La donna che visse due volte del maestro Hitchcock appunto, un giallo classico, senza scene violente ma con momenti erotici molto spinti per l’epoca.
“Volevo un film senza poliziotti e ci volle un anno per girarlo… quando uscì ebbe un enorme successo il primo giallo all’italiana dove non ci sono poliziotti, con una componente sessuale, girato in America a San Francisco e in inglese.”
Il tempo, la morte, la sofferenza
Un uomo che sembra aver davvero sfidato il tempo Lucio Vulci, lucido e imperturbabile, parla del suo rapporto con il tempo e con la morte e si abbandona anche al racconto delle sue personali tragedie.
“È terribile il mio rapporto con il tempo, non temo la morte, ma ci ragiono da tanto tempo, ci dialogo.
Il mio rapporto con il tempo va di pari passo con il rapporto con la morte.”
E la morte è venuta a bussargli proprio in un momento professionalmente appagante e felice, nel 1969, mentre dirigeva Beatrice Cenci, dramma storico ispirato alla vera vicenda della nobildonna romana giustiziata nel 1599, che evidenzia i momenti violenti ed erotici della vicenda.
È considerato il “film maledetto” in cui Fulci si impegnò tantissimo, ma nel mentre ebbe una tragedia unica perché sua moglie si suicidò per una diagnosi errata di tumore e l’anno seguente morì anche sua madre.
Un uomo rimasto solo, con due figlie, che grida tutta la sua solitudine e la sua voglia di farcela sempre e comunque.
Un uomo oramai “poverissimo” come si definisce lui stesso, che ha dilapidato tutto: barche, case, cavalli, donne.
“Ho amato molto lo sport, poi ho cominciato ad amare la barca a vela e mi ha salvato dalla depressione… il cinema mi ha salvato ero solo con due bambine, poi è morta anche mi madre, mi sono risposato, ma il cinema e la barca a vela mi hanno sempre salvato. Il cinema ci fa scegliere quello che vogliamo.”
Il Rapporto con la critica e con il peccato
Fulci è sempre stato un uomo che sa il fatto suo e che non si è mai lascito condizionare da niente e da nessuno; non è mai stato disposto a scendere a compromessi, nemmeno quando la critica gli dava addosso, neanche quando lo ha dimenticato.
“Il mio rapporto è con la critica è molto curioso perché è posteriore, la mia rivalutazione critica è nata negli ultimi 10 o 12 anni. Io amo gli onnivori di cinema, questi critici che vanno a vedere tutto e cercano di salvare il regista che potrebbe essere diverso dagli altri.”
Forse l’incoerenza, o forse quella follia latente che sempre gli è stata attribuita, hanno lasciato Fulci nell’ombra, sempre un passo indietro rispetto a tanti altri, ma di tutto ciò, il maestro, non ne ha mai fatto un dramma, anzi.
“Io sono un coacervo di incoerenza, la mia opera è incoerente, io odio i registri che fanno sempre lo stesso film, è monotono.”
“Ho sempre giudicato i miei da solo, che la critica mi abbia rivalutato questo è un problema della critica e anche che mi possa usare, io rimango quello che sono.
Ho sentito parlare bene di film di Fellini che erano brutti, perché erano di Fellini, su di me invece ho sentito dire “ e se fosse bravo?”
Alcuni critici lo hanno accusato di aver troppo seguito film precedenti, di aver fatto dei ricalchi, lui lo nega.
In Aenigma ad esempio c’è chi ha ravvisato dei riferimenti a Suspiria o a Carrie (film del 1976 diretto da Brian De Palma e tratto dal romanzo Carrie di Stephen King, si tratta del primo racconto di King adattato per il grande schermo).
“Mentre giravo il film a Carrie non ci pensavo proprio, per quanto riguarda Suspiria, – dice scherzosamente – Argento continua a dire che io lo copio ma io non posso copiarlo, perché io sono un mito, Argento è uno che vive negli incubi, non l’ho mai copiato… i nostri film sono diversissimi, lui faceva i film col sangue, io facevo i film gialli senza una goccia di sangue”
A Fulci divertono le citazioni, come in Un gatto nel cervello del 1990 dove c’è la scena della doccia come in Psycho, perché il bisogno di proporla?
Perché rappresenta uno dei suoi incubi, personali e filmografici, dice, avendo sognato tante volte di fare l’amore con una donna sotto la doccia, ma mai di squartarla.
Fulci si vanta di essere incoerente perché l’incoerenza è fantasia. Alcuni lo ritengono pazzo perché tenta sempre di uscire dal genere, in tutti i film mette una bomba che tenta di deflagrare il genere, come in Zanna Bianca che è un film di estrema crudeltà perché rappresenta la cattiveria degli uomini contro gli animali, eppure è un film per bambini, che nemmeno Disney avrebbe forse mai accettato.
“Il film non centra nulla con il libro. Il libro parte dal Klondike e si chiude nella casa di un notaio a San Francisco. Il film invece è completamente ambientato nel Klondike e il protagonista è il cane… Riunì tutti gli attori fra cui Franco Nero e Virna Lisi e gli dissi: Voi siete le spalle del cane che è il protagonista.”
Ha percorso tutti i generi nella sua carriera Fulci, per questo non è a disagio con nessuno di essi e riesce sempre nell’intento di voler trasmettere qualcosa di nuovo.
Un tema latente o presente in quasi tutti i suoi lavori però c’è, ed è il peccato, declinato in tutte le sue forme e il regista questo ci tiene a specificarlo.
Lo troviamo più di tutto in quello che lui chiama, affettuosamente, Paperino, mentre in realtà il titolo è Non si sevizia un paperino, film del 1972 interpretato da Florinda Bolkan, Tomas Milian e Barbara Bouchet (la Maciara), sconvolgente e morboso giallo da molti considerato il capolavoro del regista e il suo film più inquietante.
È un film profondamente incentrato sulla confessione e sul peccato, in cui un prete uccide i bambini perché non vuole che crescano.
Il tema del peccato attraversa anche i suoi film horror; la struttura portante dei suoi film è sempre il dubbio e quindi il peccato come in Paura nella città dei morti viventi film che codificò definitivamente il suo stile nell’horror, fatto di violenza esasperata, scene splatter ed elementi onirici vicini al surreale.
Un cimitero, una città invasa dal demonio, simbolo del peccato per eccellenza e poi zombie e tempeste di vermi.
Il peccato è anche in Nonostante le apparenze… e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne film del 1972 che alla sua uscita nelle sale cinematografiche italiane provocò grande scandalo e venne subito ritirato per essere successivamente riproposto ampiamente tagliato con il divieto ai minori di 18 anni.
Ci presenta una figura sodomizzata dalla chiesa, che non può esprimersi liberamente, perché giudicato come peccatore appunto; allo steso modo si presenta come un film incredibilmente profetico, perché parla di onorevole gay, è un film crudele e cattivo.
“Vorrei che fosse ri-proiettato, soprattutto ai giovani, perché pur essendo del 71 è incredibilmente attuale.”
In questa intervista che assomiglia quasi ad una confessione, Vulci dichiara
“Io non sono iscritto a nessun partito, sono un mite anarchico, come l’horror che è anarchico perché non ha basi morali sulle quali fondarsi”
Passa in rassegnai colleghi registi e su alcuni si soffermai particolar modo, dispensando elogi e qualche critica “benevola”
“Ci sono registri che camminano sotto traccia, seguendo cioè sempre lo stesso genere e poi hanno qualche punta, cioè si discostano… Bava ad esempio, considerato un mediocre regista del fantastico, quasi ignorato, in America è considerato uno dei più grandi.
Io e Mario Bava eravamo molto amici, parlavamo di amore e di cani. Non parlavamo di effetti speciali. Rispetto al genere horror, le differenze con Bava e Argento ci sono. I miei film sono avulsi, io sono regista horror per gioco; nei miei film horror c’è ironia…
Amo Leone perché è di un’essenzialità unica, anche se i suoi film sembra che durino tanto, ma sono estremamente essenziali, e sono il vero Westrn.
Anche Bertolucci è un grande, con Il Conformista, ha fatto scuola come anche con Ultimo tango a Parigi, la storia di due morti che camminano, perché sono morti. È un film fantastico, loro non sono viventi.”
Il cinema dell’orrore di Fulci
L’orrore per lui è pura idea, sono film che piacciono al pubblico pur finendo male, come In Paura nella città dei morti viventi che inizialmente, come ci spiega, finiva con un bambino che corre verso di loro.
“Il mio montatore ebbe invece l’idea di infrangere il film in tanti pezzi di immagine con le loro facce in un fuori scena che guardano dubbiosi verso la macchina da presa. I critici hanno scritto che era stupenda questa cosa che non si capisce se il bambino diventasse uno zombie oppure no.”
La scena che lui considera la più horror di tutte, è senza dubbio l’ultima sequenza di La villa accanto al cimitero, dove c’ è un mostro che si nutre degli altri, fatto con pezzi degli altri, che parla con la voce da bambino: uccide tutti, padre, madre, e tenta di ucciderei anche dei bambini che però scappano e incontrano un’infermiera che li porta via. Poi la frase finale
”non si sa se i mostri sono bambini o se i bambini sono mostri”.
L’horror è soprattutto nel tema dell’occhio tagliato dalle orbite, distrutto; è la perdita della ragione, la fine del raziocinio, è un omaggio ad Apollinaire.
Negli ultimi minuti, ci regala delle riflessioni molto profonde, associando gli uomini di potere a degli zombie
perché
“non li puoi distruggere se non sparandogli in faccia.”
Infine le ultime parole, sono per i giovani
“ I giovani vanno poco al cinema, e poi storcono il naso; cominciate ad andare al cinema ed ad amare tutto il cinema.”
Da questa lunga chiacchierata emerge la figura di uomo che ha vissuto tanto, ha vissuto tutto, ha vissuto appieno la vita attraverso l’occhio della telecamera, un uomo che ha sofferto, ma ha saputo reagire, un uomo che non si è mai lasciato piegare da niente e da nessuno.
Un uomo capace di amare anche e di riconoscere quali siano i veri valori della vita.
“In questo momento non sono una persona sola, sono circondato all’affetto di chi non c’è più e dall’ammirazione di quelli che sono rimasti”