Black Mirror è tornato con la quinta stagione, disponibile dal 5 giugno su Netflix. Tre episodi da circa un’ora ciascuno, che raccontano tre storie molto diverse tra loro
Dopo il discusso e deludente episodio interattivo Bandersnatch, Black Mirror è tornato con tre racconti che riprendono lo stile tipico della serie che ha fatto appassionare milioni di persone e le ha spinte a riflettere sull’influenza della tecnologia nella propria vita e sull’umanità in genere.
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Stavolta però, il pubblico non ha gradito la serie tanto quanto in passato e non sono mancate pesanti critiche insinuanti che Black Mirror sia diventata troppo commerciale e fan service. Non sono d’accordo, penso che siano presenti forti interrogativi etici e che le storie siano probabilmente così realistiche e vicine alla nostra quotidianità da non sconvolgerci tanto quanto quelle precedenti e questo, francamente dovrebbe terrorizzarci anziché farci biasimare immediatamente produttori e sceneggiatori della serie. Come dico sempre, dobbiamo imparare a distinguere le critiche costruttive dai nostri gusti personali.
Il cast è straordinario ed il livello recitativo è molto alto; le ambientazioni, sempre accattivanti, contribuiscono a caricare di intensità le scene così come le riprese che oscillano tra panoramiche di spazi aridi ed ampi a inquadrature ravvicinate ed intime. E’ diverso, ma non necessariamente deludente. Ciò che sicuramente è piaciuto meno, è che uno degli episodi si conclude con quello che potremmo banalmente definire “lieto fine”, ma analizziamoli uno ad uno, senza spoiler.
Rachel, Jack e Ashley Too
Rachel e Jack sono due sorelle orfane di madre che faticano a relazionarsi con i ragazzi della loro età, ma mentre Jack introversa e burbera non ne soffre, perché col tempo ha costruito un muro di cinismo simulato intorno a sé, la dolce Rachel non desidera altro che piacere agli altri. L’ambivalenza tra le due è resa magistralmente sia nell’aspetto delle interpreti (Angourie Rice e Madison Davenport) sia nel contrasto cromatico e decorativo della cameretta che condividono. Insieme rendono perfettamente l’idea di yin e yang. Rachel ha in Ashley O (Miley Cyrus), una cantante pop piuttosto frivola e piena di sé, un modello da seguire. Quando viene lanciata sul mercato una bambola interattiva chiamata Ashley Too, il tenero padre di Rachel gliela regala e la ragazza ha finalmente un’amica con cui confidarsi.
L’episodio, però, non si sofferma soltanto su questo pericoloso rapporto artificiale, ma approfondisce la vita privata della pop star che scopriamo essere manovrata dalla sua manager, nonché zia, che attraverso un contratto vincolante, la costringe ad una ipocrisia e staticità artistica e personale arrivando persino a narcotizzarla per inibire la sua spontaneità.
L’episodio più contestato è, per assurdo, anche il più realistico perché su stessa ammissione della nota interprete, Miley, apprendiamo che si ispira apertamente al periodo in cui, legata ad un contratto pluriennale con la Disney, ha interpretato Hannah Montana alla quale non nega di dovere tutto il suo successo, ma dalla cui “gabbia” è stato difficile fuggire.
Smithereens
L’episodio ruota intorno ad un autista di taxi, Chris Gilheany (interpretato dal bravissimo Andrew Scott) che sequestra un dipendente della Smithereens (Damson Idris) con lo scopo di far ascoltare la propria voce, raccontare la propria verità e riuscire a farsi sentire in un mondo dove tutte le comunicazioni avvengono tramite social e dispositivi elettronici. Il suo obiettivo è riuscire a parlare con il CEO della Smithereens, Billy Bauer (Topher Grace, già visto in BlacKkKlensman e Spiderman 3) ma raggiungerlo sembra impossibile e, quel che è peggio, è che il ragazzo sequestrato è soltanto un tirocinante alla sua prima settimana di lavoro.
L’episodio è molto più realistico dei precedenti e le tecnologie di cui tratta, sono facilmente riconoscibili tra quelle di uso comune (Twitter, sistemi di localizzazione, intercettazioni telefoniche e consultazione dati personali). La situazione precipiterà rapidamente e, a prescindere dalla tremenda ragione che ha generato il crollo psicologico del protagonista, ciò che inquieta maggiormente è che Smithereens è in grado di accedere ai dati sensibili dell’uomo prima dell’FBI. Questa puntata mi è piaciuta moltissimo e mi ha commosso, per altro il finale (che non vi rivelo) non è affatto scontato. Sei d’accordo?
Stricking Vipers
Danny (Anthony Mackie) è un giovane padre e marito di Theo, una bella donna con il forte desiderio di avere un altro figlio. Carl (Yahya Abdul-Mateen II) è il migliore amico di Danny, sciupafemmine e casanova incallito. I due si ritrovano in occasione del compleanno di Danny e Carl gli regala la nuovissima ed iper realistica versione di un videogioco cui erano soliti giocare insieme negli anni del college: Striking Vipers (una sorta di Mortal Kombat). Da quella stessa notte, ciascuno dal divano di casa sua, ricominciano il gioco con i personaggi che utilizzavano anche da ragazzi: la bionda lottatrice interpretata da Pom Klementieff (Guardiani della Galassia Vol.2, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame) e l’affascinante asiatico interpretato da Ludi Lin (Aquaman). Poco dopo aver dato inizio alla lotta, attraverso un sensore in grado di far percepire al corpo tutte le sensazioni provate dal proprio personaggio, i due guidati dall’istinto, intraprendono una relazione sessuale virtuale.
Sebbene la coppia di amici cerchi di ridurre la reciproca dipendenza, la moglie di Danny, Theo (Nicole Beharie) si accorge presto che il rapporto con suo marito è diverso, cerca sguardi e approcci di altri uomini poiché non si sente più desiderata, inizia a sospettare che lui le nasconda qualcosa e soprattutto comprende che l’uomo non sembra più motivato ad avere un altro bambino. E dal momento che la vita reale non è affatto un gioco e la famiglia lo è ancora meno, la donna prende in mano la situazione e non soltanto viene a capo del mistero, ma trova anche una soluzione che (soltanto all’apparenza?) accontenta tutti.
https://www.youtube.com/watch?v=UNgNQyE_l6U