Se fosse ancora vivo, con il suo simpatico faccione, oggi Alfred Hitchcock avrebbe 122 anni.
Noi di I Crew Play Cinema e Serie TV non potevamo non omaggiarlo ricordando uno dei suoi film più famosi.
Il 1° agosto di più di 65 anni fa veniva presentato La finestra sul cortile, uno dei massimi capolavori nella carriera di Alfred Hitchcock.
Lo stesso Hitchcock, nel suo libro-intervista scritto a quattro mani con François Truffaut, descriveva il concetto alla base di questo film:
“Abbiamo l’uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinematografica.”
La pellicola in questione, è una delle più importanti e celebrate della sua carriera, presentato in anteprima a New York il 1° agosto 1954, nel corso dell’anno avrebbe riportato gli incassi più alti mai registrati da una pellicola di Hitchcock fino ad allora, oltre ad avere l’onore di inaugurare la 15° edizione del Festival di Venezia.
Rappresentò un indiscutibile trionfo artistico e commerciale, coronato da un sensazionale successo di pubblico e da quattro nomination all’Oscar (inclusa una candidatura per la miglior regia) e durante i decenni successivi, nonostante un lungo periodo di assenza dagli schermi dovuto ad un problema di diritti (il film sarebbe stato riproposto agli spettatori soltanto a partire dal 1983 a causa di questioni) La finestra sul cortile ha consolidato ulteriormente la propria fama, esercitando un’influenza fondamentale su numerosi registi che, per un verso o per l’altro, hanno voluto omaggiare o ispirarsi al maestro del giallo.
Da Omicidio a luci rosse, di Brian De Palma, al più recente Disturbia del 2007, di D.J. Caruso, vera e propria rivisitazione della pellicola del 1954, oltre a un remake televisivo del 1998 con Christopher Reeve e a Misterioso omicidio a Manhattan di Woody Allen che ne emula in parte la trama.
La Trama de La finestra sul cortile
In seguito a un incidente sul lavoro, il fotoreporter L.B. Jeff Jefferies (James Stewart), si ritrova obbligato a stare in casa su una sedia a rotelle e a trascorrere pertanto un lungo periodo immobile. Le uniche distrazioni di cui dispone in questa reclusione forzata sono le visite di Lisa Freemont (Grace Kelly), una bellissima ragazza innamorata di lui, le chiacchiere con Stella (Thelma Ritter), l’infermiera che lo assiste, e l’osservazione quasi ossessiva delle vite dei suoi vicini, che spia attraverso la finestra che da su un cortile interno.
L’oggetto principale delle sue attenzioni è un certo Lars Thorwald (Raymond Burr), un commesso viaggiatore di bigiotteria, che vive con una moglie noiosa e malata. Durante una notte Jefferies sente un urlo femminile provenire da una delle case di fronte e nei giorni seguenti vede il commesso armeggiare con una valigia d’alluminio e fare avanti e indietro dalla sua casa.
Da quella notte in poi il fotoreporter realizza che nella casa non ci sono più tracce della presenza della moglie di Thorwald, mentre gli altri vicini dicono che sia partita.
Jeff, si improvvisa allora detective, e temendo che ci sia stato un omicidio, cerca di convincere a indagare un suo amico poliziotto, che però non gli crede. Questo lo porta allora a iniziare una serie di indagini con l’aiuto di un binocolo e della sua fedele macchina fotografica, nonchè di Lisa e Stella che lo appoggiano nei suoi sospetti al punto da andare da sole nella casa del sospettato per ricavare qualche indizio della sua colpevolezza.
Queste indagini purtroppo provocheranno una reazione da parte di Thorwald e porteranno il fotografo a rischiare la vita e a tornare a guardare dalla finestra, questa volta con due gambe fratturate.
L’idea
Nonostante, in parte, la storia possa curiosamente rappresentare il periodo di isolamento forzato che tutti noi stiamo vivendo in questi giorni a causa del Covid, l’idea a dire il vero non è neanche del simpatico e geniale regista britannico.
L’origine de La finestra sul cortile si può infatti rintracciare in It Had to Be Murder, un racconto pubblicato nel 1944 dal popolare giallista Cornell Woolrich. Nel campo del mystery-novel, Woolrich è stato uno degli autori più corteggiati dal cinema, fonte di ispirazione per numerose sceneggiature.
Moltissimi sono infatti gli adattamenti dei suoi romanzi per lo schermo, fra cui ricordiamo La donna fantasma di Robert Siodmak, La notte ha mille occhi di John Farrow e due intramontabili cult di François Truffaut, La sposa in nero e La mia droga si chiama Julie. Per arricchire la struttura decisamente essenziale del racconto di Woolrich, lungo appena una trentina di pagine, Hitchcock ingaggiò lo sceneggiatore John Michael Hayes, con il quale di lì a poco sarebbe tornato a collaborare per Caccia al ladro, La congiura degli innocenti e L’uomo che sapeva troppo.
La Psicologia del film
Il film è basato prevalentemente sulle scene piuttosto che sui dialoghi, la stessa condizione di immobilità in cui si trova il protagonista ce lo farebbe intuire ancor prima di vederlo, se leggessimo la sola trama.
Come diceva lo stesso Hitchcock nella già citata intervista a Truffaut:
“Il dialogo deve essere un rumore in mezzo agli altri, un rumore che esce dalla bocca e dai personaggi le cui azioni e sguardi raccontano una storia costruita attraverso immagini“.
Una consapevolezza che il regista inglese aveva mutuato fin dall’epoca dei suoi esordi, all’inizio degli anni Venti, quando, giovanissimo, aveva imparato a servirsi degli strumenti e delle potenzialità del cinema muto, e quindi dell’immagine pura, come veicoli per suscitare l’interesse del pubblico e tenerlo con il fiato sospeso.
È un film basato sullo sguardo, sull’ossessione di osservare e di spiare tutto ciò che accade, un atteggiamento da condannare dunque, nella società civile, ma qui diventa quasi usuale e soprattutto utile alla società.
Non è dunque un cinema immorale quello di Hitchcock, più che altro è disturbante della morale. Si perché tutto ruota attorno alla vita di un fotografo guardone, guardone e impertinente, impertinente e dissoluto, e non è necessario sottolineare quante volte questa cattiva abitudine di Jeff sia stigmatizzata dai vari personaggi della storia.
Al principio del film, Stella ammonisce Jefferies con tono di rimprovero:
“Siamo diventati una razza di guardoni!“
Ma questo immorale fotografo dedito per lavoro e per inclinazione ad un voyeurismo inguaribile è anche un uomo che non intende accasarsi, avversario del matrimonio e di ogni rapporto di coppia, nonostante le esplicite avances della desiderabile Lisa e preferisce pertanto farsi i fatti degli altri.
Il condominio su cui James Stewart dirige la propria attenzione, interamente costruito in studio, sul quale Jefferies sceglierà di indagare diviene così una sorta di microcosmo, circoscritto entro i limiti del cortile.
In questa piccola comunità così variegata il nostro protagonista non ha certo di che annoiarsi, e sceglie di volta in volta chi spiare e cosa guardare, come in un film.
Emergono così, pian piano, i piccoli drammi privati di ciascun personaggio, gli aspetti più ambigui della loro routine, o quelli che stuzzicano maggiormente il voyeurismo di Jefferies; dalla coppia di sposini novelli impegnati in incessanti sessioni erotiche ai coniugi di mezza età che hanno risposto tutto il loro affetto in un vivace cagnolino;
da Miss Torso (Georgine Darcy), la conturbante ballerina che si destreggia fra un ventaglio di frequentazioni maschili, alla malinconica Miss Lonelyheart (Judith Evelyn), che simula immaginari appuntamenti romantici nella solitudine della propria casa…e poi la dolce melodia di un compositore (Ross Bagdasarian), nel cui appartamento fa capolino anche la ben nota sagoma di Hitchcock, intento ad aggiustare un orologio.
Vite, racconti, storie, tutte riconducibili però ad un unico tema che rimbomba nella trama di questo e di altri film di Hitchcock: l’Eros.
Si perché non solo i personaggi che Jefferies osserva dalla finestra, ma anche lui stesso si trova dover fare i conti con il suo rapporto con Lisa Carol Fremont, una bellissima donna che ha il volto angelico di una magnetica Grace Kelly.
I personaggi
Il protagonista L.B. Jefferies, impersonato da uno degli attori favoriti di Hitchcock, James Stewart, il quale aveva già recitato per il maestro del brivido in un altro thriller, il magnifico Nodo alla gola del 1948, temporaneamente invalido, che di professione fa il fotoreporter, è costretto a tenere a bada il proprio spirito avventuroso, e tenta di distrarsi dalla noia e dal caldo di una torrida estate newyorkese scrutando le azioni quotidiane dei suoi dirimpettai attraverso la finestra sul cortile del titolo, spesso ricorrendo all’ausilio di un binocolo.
Da svariati indizi capiamo che è un tipo solitario Jefferies, che ama farsi i fatti degli altri, ma incredibilmente avverso al matrimonio; questa sorta di misoginia, a dire il vero, la troviamo in diversi film del regista, che ha sempre avuto un rapporto complicato con le sue attici, e proprio per questo, forse, prediligeva attrici composte e tutte d’un pezzo come Grace Kelly, e dall’esuberante sensualità come Marilyn Monroe o di Brigitte Bardot.
Nel film, quando Lisa accenna, rivolgendosi a Jeff, una delle prime volte al matrimonio, la macchina da presa inquadra la finestra di Thorwald (Raymond Burr, l’omicida) quasi a sottolineare, con ineffabile humor, la fine triste dei matrimoni.
Non servono parole, sono sufficienti poche e decisive inquadrature. Il film vive di queste piccole intuizioni visive, anzi, prima che inizi la fase finale, quella più strettamente legata alla vera e propria indagine, le contrapposizioni si susseguono.
Jeff è un solitario che sembra avere voltato le spalle alla vita ed è così che lo troviamo all’inizio del film, sdraiato con alle sue spalle l’allegro cortile brulicante di storie, di vita, di agire quotidiano.
Alla fine, troviamo un’altra contrapposizione, perché alla sua immobilità fisica e sociale, si oppone la vita vera che irrompe; Thorwald entra nella sua stanza in carne e ossa e lo aggredisce, il cinema e la vita sembrano fondersi come già nella fantastica vicenda creata da Woody Allen in La rosa purpurea del Cairo.
Jeff non è più spettatore inerte, ma protagonista e vittima del suo stesso vizio. La dolce punizione sarà il raddoppio dell’immobilità (due gambe rotte) e l’impotenza come mezzo per sfuggire all’eterno d’amore della conturbante Lisa.
Per il ruolo di questa giovane donna sofisticata dell’alta società di Manhattan, il regista convocò la sua nuova attrice musa, la ventiquattrenne Grace Kelly, perfetta esemplificazione della bionda alla Hitchcock.
Elegantissima negli splendidi costumi disegnati da Edith Head, pronta a materializzarsi nel salotto di Jefferies come una visione celestiale o a servirgli una sontuosa cena direttamente dal suo ristorante preferito, Lisa (che dà il titolo alla canzone composta da Franz Waxman, leit-motiv della colonna sonora) reclama la piena legittimazione del loro rapporto attraverso il matrimonio, e pur di raggiungere il suo scopo, è disposta a tutto, anche a rischiare la propria incolumità, introducendosi nell’appartamento del presunto uxoricida.
Hitchcock arriverà addirittura ad inquadrarla mentre esibisce al proprio dito la fede nuziale della signora Thorwald, in un simpatico cammeo; è una donna apparentemente frivola, dedita ai vestiti e alla moda, ma che sa tirare fuori la grinta nel nome di un amore che nutre verso Jeff e che questi non sembra affatto meritare.
Nella sua solitudine, l’unica presenza che il protagonista sembra davvero gradire, è la scorbutica, ma amabile Stella (Thelma Ritter), donna ormai in età e quindi innocua, con la quale Jeff ha un rapporto alla pari, che invece viene difficile stabilire con Lisa.
Per interpretare la solerte infermiera che viene ad assistere Jefferies a domicilio, dispensando di tanto in tanto perle di saggezza matrimoniale, Hitchcock chiamò una delle più talentuose caratteriste nella storia di Hollywood, l’irresistibile Thelma Ritter, la quale non esita a stemperare la tensione drammatica con un liberatorio humor nero, come quando si sofferma sui dettagli più macabri del delitto in questione
“Io penso che l’abbia sparpagliata per tutta la città: un braccio nel fiume, una gamba…“
Hitchcock gioca con i suoi personaggi, con la realtà e la finzione e con la contrapposizione delle immagini, incurante (come sempre) della verosimiglianza, ma intrecciando trame e storie che apparentemente non hanno alcuna affinità.
La finestra sul cortile fa della semplicità del racconto una dote, ma tra le sue pieghe si ritrovano gli innumerevoli e istintivi significati che vanno accuratamente decrittati con un divertente lavoro di analisi su un testo, ricco di dettagli verbali e visivi, con un sapiente e ricercato utilizzo di luci e ombre.
Quello di Hitchcock è un cinema essenziale, libero da sovrastrutture, dove tutto ciò che è superfluo viene buttato via; solo il necessario viene preservato e portato in scena. Nulla perciò è privo di interesse nei suoi film, e tutto è dosato nella giusta misura, dai dialoghi alle luci, ai personaggi.
La finestra sul cortile è stato inserito dall’American Film Institute nella classifica dei 100 migliori film di tutti i tempi, è stato oggetto di una quantità incalcolabile di citazioni, e ancora oggi non cessa di stupire per il carattere straordinariamente innovativo della messa in scena.
“Niente avrebbe potuto impedirmi di girare questo film perché il mio amore per il cinema è più forte di qualsiasi morale.”
Hitchcock