“E poi cos’hanno i figli in comune con le madri ? Stronzate, stronzate superficiali: rassetta la stanza, pulisciti i denti, studia le lezioni…”Conrad Jarrett
Gente Comune (Ordinary People)
Regia: Robert Redford; soggetto: dal romanzo Gente senza storia di Judith Guest; sceneggiatura: Alvin Sargent; fotografia (Panavision): John Bailey; scenografia: Philip Bennett, J.Michael Riva, William B. Fosser, Jerry Wunderlich; costumi: Bernie Pollack; trucco: Gary Liddiard; colonna sonora: Marvin Hamlisch, Johann Pachelbel; montaggio: Jeff Kanew; interpreti: Donald Sutherland (Calvin Jarrett), Mary Tyler Moore (Beth Jarrett), Timothy Hutton (Conrad Jarrett), Scott Doebler (Buck Jarrett), Judd Hirsch (Dr. Tyrone C. Berger), Elizabeth McGovern (Jeannine Pratt), M. Emmet Walsh (Coach Salan), Dinah Manoff (Karen), Fredric Lehne (Lazenby), Adam Baldwin (Stillman); produzione: Ronald L. Schwary per Paramount Pictures; origine: USA – 1980; durata: 124′.
Trama
Chicago, primi anni ’80. I Jarret sono una famiglia dell’alta borghesia che sta cercando faticosamente di uscire dal trauma della morte del primogenito Buck cui è seguito il tentato suicidio del fratello minore Conrad. Il padre Calvin (Sutherland) cerca di recuperare un rapporto col figlio sopravvissuto, avallando il suo desiderio di parlare con uno psichiatra, il dottor Berger. La moglie Beth al contrario mantiene un atteggiamento freddo e composto, nel tentativo di riportare la serenità in famiglia. Il ragazzo, grazie alla terapia, inizia ad aprirsi e ad uscire con una compagna di scuola, malgrado continui a sentirsi alienato rispetto alla famiglia e agli altri coetanei. Questa situazione lo porta ad avere accesi confronti con la madre, che il padre cerca di moderare. Verso Natale, l’esitazione di Beth a farsi ritrarre in una foto di famiglia provoca una violenta discussione, nella quale Conrad rimprovera alla donna di non essere mai venuta a trovarlo in ospedale, dopo l’incidente in cui Buck ha trovato la morte che aveva coinvolto anche lui. La donna risponde seccamente che Buck non sarebbe mai finito in ospedale, manifestando risentimento nei confronti di Conrad, cui inconsciamente rimprovera di essersi salvato. Dopo quest’episodio Calvin inizia a ripensare al suo rapporto con la moglie e ne parla col dottor Berger, il quale ritiene che Conrad sia solo vittima del dolore represso dai genitori che viene alimentato dal ricordo dell’incidente che la presenza del figlio riporta loro alla mente. Beth riduce ulteriormente i contatti col figlio, così Calvin decide di partire con la moglie per Houston, dove vive il fratello di lei. Lì tuttavia critica apertamente l’atteggiamento gelido della moglie, provocando finalmente da parte di lei un impetuoso sfogo che rivela la terribile sofferenza provata negli ultimi mesi. Intanto Conrad apprende del suicidio di una amica conosciuta all’ospedale psichiatrico. Il triste avvenimento lo aiuta, in una seduta intensa di terapia, a comprendere il senso di colpa che lo ha dilaniato e ad accettare la fragilità della madre. Nonostante la svolta, Calvin attacca nuovamente la moglie, rimproverandole ancora la sua condotta e chiedendole se sia più in grado di amare qualcuno. A quel punto Beth, incapace di affrontare le proprie emozioni decide di andarsene. La mattina Conrad osserva la partenza della madre. Il padre si rivolge al figlio per spiegargli che alcune cose succedono senza possibilità di controllarle, ma che di questo non deve biasimare se stesso. Così, finalmente, inizia il tentativo di un rapporto autentico tra i due, che abbracciatisi, tornano in casa ad affrontare la nuova situazione familiare.
Le lacrime di Hollywood
Robert Redford è sempre stato un attore di grande successo: bello, biondo e benvoluto dal pubblico. Non è mai riuscito però ad imporsi all’attenzione dei giurati dell’Academy, spesso sconfitto (con La stangata ad esempio) o ignorato. Per il suo esordio registico sceglie un argomento a dir poco controverso, ma molto attuale negli anni ’80: il dramma familiare. Al centro della vicenda il sedicenne Conrad, che tenta il suicidio, senza che i genitori siano capaci di aiutarlo e affrontare con lui la tragedia della morte di suo fratello. Sfrutta un romanzo di Judith Guest e affida la sceneggiatura a uno scrittore di solida esperienza come Alvin Sargent (già premio Oscar per Giulia di Fred Zinneman). Ingaggia per il ruolo del ragazzo il diciannovenne Timothy Hutton, attivo fino a quel momento soprattutto in televisione così come l’attrice scelta per interpretare la madre, Mary Tyler Moore, protagonista di una fortunata sitcom che porta il suo nome (il Mary Tyler Moore Show) mentre per il ruolo del padre si affida alla recitazione del solido Donald Sutherland. Il tono del film tende inevitabilmente al melodramma, ma lo stile di Redford si mantiene in equilibrio senza eccedere, mentre sorprende l’abilità di un novellino del dirigere gli attori, soprattutto quando il ritmo languido del film si accende in dialoghi vibranti. Il responso al botteghino è molto buono, anche considerando il parco budget concesso dalla Paramount: Gente comune tocca i cuori degli spettatori proprio perché riguarda una famiglia che potrebbe essere quella di ognuno di loro. L’incomunicabilità tra genitori e figli, ma anche tra gli adulti stessi determina un’atmosfera familiare così rarefatta, da far sembrare più accogliente lo studio dello psichiatra Judd Hirsch che la casa dei Jarrett, luminosa e ordinatissima. Robert Redford ottiene finalmente il riconoscimento che gli è mancato da attore e pazienza se parte della critica giudica il film lacrimevole e la sua regia piatta: Gente Comune vince ben cinque Golden Globe (miglior film drammatico, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, migliore attrice in un film drammatico e per il miglior attore debuttante Timothy Hutton). Alla cerimonia di consegna degli Oscar il film del regista di Santa Monica-California parte con sei candidature ma ha temibili avversari in concorso.
Il racconto del redattore
L’Academy reagisce alla crisi con incertezza, in bilico tra l’intimismo dei sentimenti e il fascino delle mega-produzioni, a sfavore delle quali giocano i brucianti flop di film come I cancelli del cielo di Michael Cimino, ritirato dalla sale dopo pochi giorni di programmazione, che manda quasi in bancarotta la gloriosa United Artists. Apre la manifestazione un breve messaggio registrato del presidente ed ex attore Ronald Reagan che scatena l’applauso dei presenti: egli è appena sfuggito all’attentato del folle John Hinckley, che dedica l’impresa a Jodie Foster, della quale è innamorato. La cinquina dei finalisti vede in gara lo struggente The Elephant Man di David Lynch, con un John Hurt mostruoso nell’aspetto ma gentile nell’animo: non vince nulla ma la sua eccezionale trasformazione provocherà l’istituzione dell’ Oscar per il trucco. Concessione al kolossal, peraltro doverosa, sono le otto nomination per Toro Scatenato, visionario capolavoro di Martin Scorsese che torna a lavorare con Robert De Niro per raccontare, in bianco e nero, la parabola del pugile Jake La Motta, dal titolo di campione del mondo ai problemi personali e di salute degli ultimi anni. Per interpretarlo De Niro tira di boxe con il vero campione, cui non dispiace un film su di lui e pur di assomigliargli da vecchio ingrassa trenta chili: il risultato è una prova d’attore fenomenale, che spazza via qualunque dubbio e gli consegna la prima statuetta da protagonista. Le molte segnalazioni del film però si riducono a poco; oltre De Niro ad essere premiata è solo Thelma Schoonmaker, fedelissima responsabile del montaggio del regista. Colpisce nel segno la levigatezza della confezione di Tess, eroina che l’amore trasforma prima in mantenuta e poi in assassina che Roman Polanski ha girato in Europa, impiegando nove mesi per cogliere la luce naturale delle stagioni che illuminano il volto della bellissima Nastassja Kinski, in una parte che il regista anni prima avrebbe voluto affidare a Sharon Tate, se il destino non avesse deciso diversamente. Tre Oscar a fotografia, a scenografia e costumi sono il bottino di Polanski, che ben si guarda dal tornare negli USA, temendo l’arresto. Ultimo concorrente di Gente Comune è La ragazza di Nashville di Michael Apted, biografia della cantante Loretta Lynn che realizza il sogno americano da figlia di un minatore a star della musica country, dividendosi tra il palco e il ruolo di madre e moglie esemplare. La interpreta Sissy Spacek che esita: a trentadue anni, dopo film di rilievo come Carrie – lo sguardo di Satana e La rabbia giovane interpretare una leggenda vivente è una sfida, ma si decide dopo aver incontrato Loretta Lynn. Le due si piacciono, hanno la stessa taglia e si somigliano, senza contare che la Spacek ha inciso un disco rock quindi è dotata di buona tecnica. Le basta ammorbidire l’accento texano e la sua performance anche canora le frutta l’Oscar da attrice protagonista. Il campione d’incassi L’impero colpisce ancora è relegato alle categorie secondarie e vince per il suono, mentre conquista due statuette il frizzante Una volta ho incontrato un miliardario di Jonathan Demme, per la sceneggiatura e l’attrice non protagonista Mary Steenburgen (la ricorderai almeno come la maestra Clara, innamorata di Doc Brown in Ritorno al futuro – Parte III). Calorosa la standing ovation che accoglie l’Oscar onorario a Henry Fonda. Nessuno si aspetta che il vecchio leone abbia ancora delle carte da giocare per l’anno successivo. In chiusura Gente Comune viene incoronato miglior film, cui si aggiungono per un soddisfatto Redford (nei filmati) il trofeo per la regia, quello per la sceneggiatura non originale ad Alvin Sargent e quello all’attore non protagonista per Timothy Hutton, che nel ruolo del giovane Conrad è sullo schermo durante quasi tutto il film ma viene curiosamente candidato come supporter.