Eric è una miniserie televisiva britannica in sei puntate, diretta da Lucy Forbes e distribuita da Netflix da fine maggio di quest’anno, con Benedict Cumberbatch come protagonista e ambientata nella controversa New York della metà degli anni ’80. La serie fin da principio è stata molto amata dal pubblico della piattaforma streaming americana, che di fatto si è subito appassionato nel seguire le vicende di questo padre alla disperata ricerca del figlio perduto per le vie di New York, tenendo conto ovviamente sulla sempre intensa ed estremamente efficace recitazione del sempre bravissimo attore britannico.
Una serie che potremmo considerare tra quelle “oscure” di Netflix. In questo caso la trama verte sulle vicende umane e lavorative di un burattinaio della New York del 1985 a cui, ad un certo punto, scompare il figlio gettando nello sconforto un’intera famiglia e una città intera, la quale rivelerà, durante questa vicenda tutti i suoi aspetti più oscuri, perché partendo dal tema della scomparsa di un bambino, altri temi si intrecceranno all’argomento principale della serie, facendone uscire un interessante spaccato socio-culturale di una megalopoli come New York negli anni che l’avrebbero portata verso l’odierna modernità digitale.
Eric: La trama
Siamo nella New York del 1985, Vincent Anderson (Benedict Cumberbatch) e sua moglie Cassie (Gaby Hoffmann) stanno attraversando una profonda crisi matrimoniale, hanno un figlio di 9 anni, Edgar (Ivan Howe) il quale, essendo un bambino molto sensibile, soffre enormemente per le continue liti dei genitori, a salvarlo però da questa tetra esistenza c’è l’arte del disegno il cui talento è indubbiamente stato ereditato dal padre, burattinaio piuttosto famoso in quegli anni e geniale ideatore del famosissimo programma per bambini Good Day, Sunshine!.
Ad un certo punto però tutto si incupisce quando Edgar, dopo una lite tra i genitori, svanisce nel nulla e questa scomparsa acuisce ancor di più la distanza tra i due coniugi, il cui rapporto tra sensi di colpa e accuse reciproche diventa sempre più una crisi senza soluzione. Sullo sfondo di questa sparizione una città che, tra indifferenza e preoccupazione per le sorti del piccolo Edgar, si interroga su quali valori siano importanti da seguire, e se in una megalopoli con tante problematiche, sia possibile salvare l’innocenza di una giovane anima.
Eric, Una New York con tante problematiche senza una soluzione
Da subito la scomparsa di un bambino provoca, come da sempre è stato, una forte mediaticità ed un’altrettanta intensa partecipazione della popolazione, la quale si interroga di rimbalzo sulla sicurezza dei propri figli e dei propri nipoti. E’ una New York, quella narrataci dalla regista, con tantissime problematiche di non facile soluzione: un tasso di disoccupazione elevato, droga nei quartieri più poveri e che di rimpallo va a finire sul tavolo dei più ricchi, un’intera città nelle fogne, problemi di alcolismo, solitudine, prostituzione, corruzione a livello politico e a livello sociale su tutti i livelli, discriminazione razziale, omofobia, indifferenza, povertà, AIDS e tantissimi altri ed invisibili problemi che difatti la rendono una città pressoché umanamente invivibile per tutti.
E’ infatti questo il mondo in cui troviamo Vincent e la sua famiglia. I quali in realtà potrebbero stare nella parte nobile della Grande Mela, essendo il padre di Vincent, Robert Anderson (John Doman) e la moglie Anne Anderson (Phoebe Nicholls) appartenenti al gradino più alto della piramide sociale, essendo Robert un grande magnate nell’ambito delle costruzioni con non pochi contatti con le alte sfere della politica di quella città, fino addirittura ad arrivare ad influenzare le scelte del sindaco Richard Castillo (Jeff Hephner).
Ma Vincent e Cassie non vogliono far parte di quel dorato mondo, perché è freddo, indifferente e senza amore, dove solo i soldi comandano e contano. Una specie di torre d’avorio dalla quale scrutare gli altri come puntini minuscoli, senza offrire un aiuto concreto per far si che la città cresca ed esca da quel circolo vizioso fatto di corruzione e malaffari. L’unica cosa a cui pensano i vecchi Anderson è aumentare il proprio prestigio e il proprio benessere finanziario, solo ciò conta, oltre all’apparenza il nulla più totale.
Vincent ha pagato direttamente sulla sua pelle quel mondo, soprattutto dal punto di vista psicologico, rendendolo un adulto profondamente instabile e tormentato, che lo ha portato dopo il matrimonio, nonostante i mille problemi da cui è circondata la sua vita, a scegliere un mondo esterno a quello avaro di sentimenti datogli dai genitori.
Un caso, quello di Edgar Anderson, che scuote l’opinione pubblica e riapre una ferita aperta, in una grande città come è la turbolenta NY degli anni Ottanta, non nuova a sparizioni nel nulla di minori o comunque di soggetti fragili risucchiati da quell’enorme megalopoli e spesso mai più restituiti. Infatti alcuni mesi prima era scomparso nel nulla un altro ragazzo, un poco più grande di Edgar, e nel modo in cui si vede la gestione dei due casi analoghi, troviamo un’enorme e sostanziale differenza: il ragazzo infatti è di colore, povero e invischiato in brutti giri e abita nella parte più povera e malfamata della città.
In un mondo ideale, “perfetto”, se volessimo citare il capolavoro di Clint Eastwood con Kevin Costner dei primi anni novanta, tutto questo non dovrebbe fare alcuna differenza, ma essendo la Grande Mela della metà degli anni Ottanta e il mondo in generale tutto tranne che minimamente vicino a quel tipo di mondo che da lontano almeno Eastwood immaginava, ritrovandoci invece con l’annoso problema di discutibili distinzioni tra cittadini di serie A, cioè Edgar, quindi di famiglia abbiente e bianco, mentre dall’altra Marlon Rochelle (Bence Orere), ragazzo di colore e poverissimo e che ha come unico sostegno solo una ragazza madre, Cecile Rochelle (Adepero Oduye).
Infatti una volta scomparso Marlon, le ricerche presto sono state abbandonate senza particolari pentimenti da parte della corrotta e razzista polizia newyorkese, con a capo Matthew Cripp (David Denman), abituata a veder sparire ragazzini poveri e di colore, facendo si la propria parte come da protocollo e facendo il minimo indispensabile per poterli trovare, ma senza comunque impiegare chissà quali mezzi di ricerca e risorse per ritrovare un membro per loro “non importante” della società.
La scomparsa di Edgar invece fin da subito è ben diversa per tutti. Accende i riflettori della polizia, della politica, della televisione e della mai sazia opinione pubblica, riaprendo anche domande a cascata sulla scomparsa di altri prima di Edgar, come lo stesso Marlon, riaccendendo la speranza in Cecile di magari poter ritrovare un figlio del cui non può nemmeno piangere il cadavere.
A tenere accesa la speranza della donna, c’è però un integro e onesto poliziotto, Micheal Ledroit (McKinley Belcher III), difatti una specie di Serpico anni Ottanta in lotta contro tutto e tutti, risultando una mosca bianca in un sistema fortemente corrotto e classista. Un uomo di colore, che con le difficoltà del caso, è costretto a vivere una doppia esistenza: poliziotto a capo della sezione scomparsi di giorno, mentre fuori dalla centrale della polizia, omosessuale e sensibile compagno di vita di un uomo bianco, William, con il quale convive e che l’AIDS gli sta crudelmente portando via, ma che nonostante tutto lui cura con amore e assoluta devozione.
Un uomo insomma costretto a mediare tra due universi differenti, e che di fatto con il suo non esporsi completamente, scontenta in ugual misura: il suo capo e i suoi colleghi bianchi che lo accettano malvolentieri e che, per averlo più simile a loro, vorrebbero vederlo più rilassato e magari accompagnato ad una qualche donna; mentre dall’altra parte è la stessa Cecille, la quale nonostante Micheal sia l’unico ad avere ancora un minimo e serio interesse a ritrovare il figlio, non crede che stia facendo comunque abbastanza per trovare Marlon, accusando il poliziotto di non avere il coraggio di esporsi e svelare finalmente il muro di omertà che separa la donna da una pace che meriterebbe.
Eric; Una città, due protagonisti, esistenze e problemi diversi
La New York degli anni Ottanta è un mondo che ricorda molto la Parigi Ottocentesca postrivoluzione ben rappresentata da Eugene Sue, ne I misteri di Parigi, soprattutto nella divisione tra ricchi e poveri, perché ci sono diversi livelli di ricchezze e povertà in questa città: ricchissimi, ricchi, poveri, poverissimi e all’ultimo gradino di questa vergognosa scala sociale, la popolazione senza fissa dimora.
Quest’ultima però non vive in superficie con le altre, ma nelle fogne newyorkesi, esiste infatti un sottobosco, una vera e propria città sotterranea in cui vivono quelli che sono considerati i derelitti di quella società; spacciatori, drogati in cerca di una dose, pervertiti, venditori di diversi e discutibili piaceri e comunque più in generale, gente che ha lasciato ogni speranza in superficie e che cerca di campare con discutibili espedienti, sebbene alcuni di questi moralmente diversi e con i propri principi.
In superficie le cose però non vanno meglio; perché se non è l’estrema povertà il problema, sono altre e numerose le problematiche che affiggono la società newyorkese degli anni Ottanta sia a livello sociale, che strettamente personale.
Vincent è infatti un uomo assai problematico, fa il burattinaio, è un creativo di grande talento ed è piuttosto famoso nel mondo dei bambini, ma ha gravi problemi con alcune dipendenze da cui è perseguitato: alcool, dipendenza da droghe come la cocaina, abuso di farmaci, rabbia repressa che sfoga spesso anche con il suo amico e collega di lavoro, Lennie Wilson (Danny Vogler), estemporanee relazioni extraconiugali, schizzofrenia e soprattutto un pessimo carattere che riversa senza pietà e in dosi eccessive su colleghi di lavoro e famiglia.
La scomparsa di Edgar provocherà un peggioramento di queste sue condizioni, ma non ne intaccherà la sua creatività, che anzi aumenterà senza controllo. Basandosi su un disegno di suo figlio creerà il suo futuro pupazzo, un mostro gigante, vagamente somigliante al mostro di Monsters & Co. il quale però, uscirà non solo in versione vera e propria come costume e personaggio da portare in scena per lo spettacolo, ma che diventerà anche una pericolosa alterazione del suo già precario stato mentale, diventando il compagno di vita e di follia di Vincent, colui che lo “aiuterà” nella ricerca del figlio scomparso.
Eric difatti incomincerà a seguirlo dappertutto, a parlare sempre di più con lui e ad accettarlo come personaggio reale, esiliandosi dall’altra parte dal mondo reale che non sembra comprenderlo. Una sorta di rappresentazione drammaticamente farsesca della propria coscienza autoinflittasi da lui stesso, e che di fatto da una parte lo mette di fronte senza pietà alle proprie colpe, mentre dall’altra lo porterà a rivelare verità sepolte dentro di lui e che forse lo potranno aiutare in futuro ad essere un uomo e un padre diverso e migliore.
Altri problemi più generali sono invece quelli di cui invece Micheal Ledroit dovrà fare conto: sono le discriminazioni che l’uomo deve subire sotto diversi livelli: è segretamente omosessuale e quindi deve reprimere la sua natura per poter vivere in pace con quella società che però apertamente disprezza.
Un esempio lampante di questa discriminazione che anche lui subisce, è la malattia del compagno di Micheal, William, di diversi anni più grandi di lui, e che troviamo allo stato terminale di quello che può essere considerato il male assoluto di quel periodo: l’AIDS, sulla quale per decenni si è senza pietà speculato, ma che casi emblematici e famosi come quelli degli attori Rock Hudson e Robert Perkins, il fenomenale vocalist dei Queen, Freddie Mercury e il pornodivo John Holmes e tantissimi altri hanno permesso, anche grazie alle poi successive ed adeguate campagne di informazione, di darne la giusta visibilità, smentendo le falsità che in quegli anni andavano disperdendosi nel popolo americano e non solo sul virus HIV.
La famiglia del compagno, una volta venuto a mancare, non disconosce di fatto che Micheal amasse veramente il loro caro, ma in ogni caso pensano comunque male di lui, credendo che sia lui ad averlo infettato per motivi ovviamente estremamente superficiali e razzisti, quando in realtà la verità sta nel fatto che William ha contratto il virus dell’HIV da qualcun altro.
Altra emblematica e triste verità, è il fatto che, non essendo loro una coppia convenzionalmente accettata e riconosciuta, Ledroit non possa nemmeno assistere e vedere il compagno nei suoi ultimissimi momenti di vita perché la famiglia non da il benestare, mettendo in risalto anche in questo caso più il potere delle convenzioni che quello dei sentimenti reali.
Questo sono solo alcuni dei problemi che affliggono una società malata non solo di malattie medicamente reali e diagnosticabili come l’AIDS, ma di mali segreti invisibili, collettivi ed individuali che siano, nella New York degli anni Ottanta e che difatti sono arrivati, seppur con alcune variazioni del caso, nell’altrettanta globalizzata, ma solissima società del ventunesimo secolo.
Eric: Vincent, Un uomo diviso a metà tra follia e voglia di cambiare
Certamente la parte più interessante e particolare della serie è il ruolo del pupazzo Eric.
Questo assume all’interno di essa diversi ruoli: dapprima è soltanto un disegno di un bambino che attraverso quel disegno da una parte esprime le paure verso il mondo circostante e dall’altra verso il padre, ma allo stesso tempo è un punto di contatto con questo, il quale per ritrovare il figlio scomparso userà quel disegno da una parte per tramutarlo in realtà e far si che se il figlio lo veda possa tornare a casa, dall’altra rappresenta una parte di se, quella più vera, più folle ed estrema, che esiste soltanto nella sua immaginazione e che rivela senza filtri tutte le sue colpe su quella vicenda.
Eric però diventa poi anche il simbolo del furto dell’identità e della creatività, perché sarà un altro, un collega ad interpretarlo nello show televisivo visto gli evidenti squilibri mentali di cui è affetto Vincent, ormai completamente incapace di controllarli.
Eric quindi difatti diventa il pupazzo che rappresenta la realtà non solo di un uomo, ma di una città intera: rappresentazione della follia, ma anche maschera capace di tornare placida, serena e sognante una volta che la tempesta è passata, perché non dimentichiamoci che Eric è comunque un pupazzo frutto si dell’immaginazione, ma é anche la vera e propria rappresentazione di un mondo che vive costantemente in bilico tra follia e momenti apparente serenità, perché un mostro come gli esseri umani hanno si un volto che può repellere ad un primo impatto, ma che al suo interno ha anche mille sfaccettature diverse che lo rendono non così cattivo come l’aspetto suggerirebbe.
Eric. Una regia tra cultura pop, letteraria e problemi reali
La regia di Lucy Forbes rappresenta molto bene tanti mondi diversi che si vanno a mischiare tra di loro e dimostra come la regista sappia esattamente di cui sta parlando.
Il mondo circostante in cui si muove ci viene rappresentato come un mondo cupo, dominano infatti tonalità scure e profondamente dark, rassomiglianti più ad universo più simile a Blade Runner o ad una ipotetica Gotham City di Batman o come accennato in precedenza una Francia del diciannovesimo secolo, una terra quindi che mischia elementi pop tra di loro e che potremmo inquadrare tra fantascienza e storia passata, in cui gli anni Ottanta e NY sembrano essere gli anni e il terreno giusto per far si che genialmente si incrocino.
A far da rottura a questa spettrale atmosfera, c’è il giubbotto di Edgar colorato che circonda tutta la serie, un rimando certamente voluto al tetro mondo di Schindler List di Steven Spielberg, in cui in quel caso era il cappottino rosso di Oliwia, la sola macchia di colore dell’intero film. Qui il film è tutto a colori, ma il cappottino di questo bambino con tonalità che vanno dal marroncino al rosso, sembra avere la medesima funzione in questo mondo dominato da tonalità grigie e scure.
Non è infatti soltanto un’opera drammatica Eric, ma ad un secondo livello è fortemente citazionistica, rimandando ad elementi che su diversi livelli si rifanno alla cultura pop di quel momento negli Stati Uniti. Vengono infatti citati tanti personaggi reali del tempo, su tutti Jim Henson il più famoso burattinaio televisivo del tempo e creatore di svariati Muppets, tra cui Kermit la Rana e Rowlf del Muppet Show, ed Ernie di Sesame Street, e di cui Vincent sembra voler ricalcare in parte la folle vita, tra genialità creativa ed eccessi che hanno contraddistinto la turbolenta vita del geniale fumettista.
Sono tanti però i personaggi citati appartenenti al mondo degli anni Ottanta: da Eddie Murphy a Stanley Kubrick, dal regista Sam Peckinpah al creatore della rivista Playboy, Hugh Hefner, i quali vengono spesso utilizzati soprattutto per minimizzare l’altro, e non è un caso infatti che queste citazioni rientrino quasi tutte nell’ambito lavorativo artistico in cui lavora Vincent.
Anche però i riferimenti musicali e letterari sono molto importanti, su tutti interessante l’uso che fa per esempio della bellissima ballata del 1975, I’m Not in Love della band britannica dei 10cc che sarà una specie di colonna sonora che accompagnerà tutto il film, esprimendo però sentimenti e sensazioni diverse dall’inizio rispetto alla fine: Medesimo uso tocca allì‘espediente letterario, in questo caso uno tra gli aforismi più famosi di Lev Tolstoj:
Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare sè stesso”
Infatti anche questa massima esprime cose molto diverse rispetto al momento stesso in cui viene pronunciata la prima volta, perché da frase buttata lì per eccessiva saccenza all’inizio, diventa alla fine l’espressione profonda di una verità che fa riflettere sulla dura realtà, e che il cambiamento più grande vada fatto dapprima in se stessi, ancor prima che nel mondo, e Vincent diventerà l’emblema di questo aforisma tutt’altro che banale. Come se volesse dirci “Incomincia a cambiare tu, poi il tuo mondo e ciò che lo circonda, faranno lo stesso”.
Altra scelta interessante sono i cambi di scena di cui la regista fa sapientemente uso: in cui per esempio una medesima situazione venga mostrata su due diversi livelli, quello del ricco e quello del povero nello spazio di pochissimo tempo proprio per enfatizzare la drammatica differenza di due medesimi dolori: da una parte la solidarietà e la partecipazione di tutti al dramma di una madre bianca, mentre dall’altra la solitudine estrema di Cecile, lasciata sola in un angolo alla stazione di polizia in attesa di giustizia per anche suo figlio ugualmente scomparso.
Eric. Conclusioni
Eric è indubbiamente uno dei prodotto migliori che Netflix quest’anno ha messo a disposizione dei propri utenti e i meriti di questa serie sono moltissimi. Dalla scelta degli attori, a partire dal cast principale con Benedict Cumberbatch come sempre sugli scudi, ma anche altre notevoli interpretazioni come quella di Gabby Hoffmann e quella di McKinley Belcher III, fino ad arrivare allo sviluppo di tante tematiche che fanno da contorno ad un evento singolo, la sparizione di un bambino, ma dietro la quale c’è un mondo intorno su cui riflettere in tutte le sue più molteplici sfumature.
Perché non è infatti Eric un mondo a sé stante; abbraccia ingiustizia e giustizia, fantasia e dura realtà, mondo di ieri con il mondo anni Ottanta, problematiche di un mondo che non esiste più e ingiustizie sempre presenti anche oggi, furto di un’identità del passato e progresso con le loro contraddizioni, tonalità scure e chiare, citazioni pop a storici aforismi, tutto inserito all’interno in una serie che solo superficialmente parla della sparizione di un bambino, ma che riflette sul mondo di ieri e di oggi, nella speranza magari di cambiarlo una volta per tutte un mondo, gettando solide basi magari per migliorare quello di domani…