Abbiamo già affrontato un tema analogo con Stanley Kubrick e Stephen King per quanto riguardava Shining. Non ci tragga in inganno la fama strepitosa che ha acquistato King in seguito; quando un gigante come Kubrick scelse Shining per farci un film, King aveva solo 30 anni ed era al suo terzo romanzo. Poi lo scrittore ha avuto da ridire, giustamente, che Kubrick gli ha stravolto il romanzo, ma la sua fama, che sarebbe arrivata comunque, è stata enormemente accelerata dal film.
Robert Bloch non è noto come King, né come meriterebbe. Nonostante fosse molto più giovane dei leggendari Lovecraft, Ashton Smith, Seabury Quinn e Robert Howard, fece in tempo a pubblicare per la mitica rivista pulp Weird Tales e fu discepolo e assiduo corrispondente di H. P. Lovecraft. Poi continuò a scrivere racconti e sceneggiature per cinema e televisione, ma oggi si ricorda quasi esclusivamente per essere stato l’autore di Psycho, il romanzo dal quale fu tratto il famoso film di Hitchcock.
Sull’onda dell’enorme successo del film scrisse anche Psycho II e Psycho house quindi credo proprio che, nel suo caso, non abbia mai avuto nulla da ridire sulla versione cinematografica di Hitch, anche perché collaborò ancora con lui, scrivendo le sceneggiature di alcuni episodi di Alfred Hitchcock presenta, apparsi in televisione fra il 1955 e il 1962. Perché parlarne, allora? Perché, con un certo ritardo, ma per averlo letto in tempo avrei dovuto avere minimo più di 70 anni, ho letto il romanzo nell’edizione del Saggiatore, che ha due appendici; un articolo di Loris Tassi sul romanzo e l’intervista relativa a Psycho tratta da Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut.
La molla che ha fatto scattare la voglia di dire la mia è proprio l’articolo di Tassi. La sua tesi è che le presunte novità introdotte da Hitch si trovavano già nel libro. Se vogliamo guardare alla storia, effettivamente, il film segue pedissequamente la trama del libro. C’è un’unica differenza: il libro comincia su Norman Bates, il film su Marion Crane, che nel libro si chiama Mary Crane. Potrei chiuderla qui, dicendo che si tratta di due prodotti simili che differiscono solo nel medium. E invece, secondo me (e non solo secondo me, direi), il film è veramente un capolavoro, che ha lasciato un segno nell’immaginario collettivo,
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mentre il romanzo è bellissimo, mette i brividi e tiene incollati alla pagina, lo consiglierei a chiunque, ma è più convenzionale.
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I motivi per cui il film si distacca dal libro e lo supera sono, essenzialmente, tre:
1. La morte di Marion
Hitch aveva spiegato a Truffaut che aveva deciso di far morire la protagonista dopo appena 20 minuti per spiazzare lo spettatore, chi mai si sarebbe aspettato che l’interprete principale morisse a un terzo del film? Ed ecco che Tassi precisa che è nel romanzo che Mary muore a un terzo del libro e Hitch non ha fatto che copiare. Ma è vero? Direi di no. Nel romanzo muore Mary, che è un personaggio assolutamente secondario. Ha la sola funzione di innescare la storia. Il protagonista assoluto è Norman Bates, tant’è che il libro inizia su di lui che sta leggendo nella sua camera. Il ruolo di protagonista femminile spetterebbe, casomai, a Lila, la sorella di Mary che, alla fine, è il Deus ex machina del romanzo.
Nel film, invece, muore la star, Janet Leigh. Credo che ci sia voluto del coraggio da parte di un’attrice così affermata per accettare un ruolo di 20 minuti, ma si è guadagnata, comunque, un Golden Globe e una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista. Cosa ci sarebbe voluto a invertire i ruoli e far morire Vera Miles? Nulla, ma Hitch non l’ha fatto perché voleva disorientare lo spettatore.
2. La scelta di Norman Bates
Norman, nel romanzo, è un quarantenne grassoccio e miope che sta perdendo i capelli; classico cocco di mamma sfigato, deriso dalle donne, dal quale è lecito aspettarsi anche qualche stranezza. Tony Perkins, invece, è un bel ragazzo, magro, molto alto, che piacerebbe a qualsiasi donna. La sua fissazione edipica per la madre, viene da pensare allo spettatore medio, potrebbe essere facilmente spazzata via da una ragazza un po’ più intraprendente. La sua follia, per quanto Perkins sia abbastanza inquietante, è meno ovvia. Il finale sarebbe meno sorprendente se nella parte di Norman ci fosse stato, che so, John C. Reilly.
3. La tecnica
Poco ne capisco, perciò lascio parlare Hitch. La sola cosa che posso dire è che, leggendo le parole di Sir Alfred, non si può che dargli ragione.
“La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, era la cosa alla quale tenevo di più. In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione riuscire a utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione collettiva. E con Psycho ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro“.