Lo splendido musical tratto dal Pigmalione di G.B. Shaw sfida la tata volante della Disney
My Fair Lady (id.)
Regia: George Cukor; soggetto: dal musical omonimo di Alan Jay Lerner, Frederick Loewe, tratto dalla commedia Pigmalione di George Bernard Shaw; sceneggiatura: Alan Jay Lerner; fotografia (Technicolor, Super Panavision): Harry Stradling; scenografia: Gene Allen, George James Hopkins, Cecil Beaton; costumi: Cecil Beaton; colonna sonora: Frederick Loewe; direzione musicale: André Prévin; canzoni: F. Loewe, A.J. Lerner; coreografie: Hermes Pan; montaggio: William Ziegler; interpreti: Audrey Hepburn (Eliza Doolittle), Rex Harrison (prof. Higgins), Stanley Holloway (Alfred Doolittle), Wilfrid Hyde-White (col. Pickering), Gladys Cooper (sig.ra Higgins), Jeremy Brett (Freddy). Theodore Bickel (Zoltan Karpathy), Mona Washbourne (sig.ra Pearce), Isobel Elsom (sig.ra Eynsford-Hill), Henry Daniell (principe di Transilvania), baronessa Rotschild (principessa di Transilvania); produzione: Warner Bros; origine: USA – 1964; durata: 168′.
La Trama
Londra, una piovosa serata dell’età edoardiana. I gran signori che escono dalla Royal Opera House si riparano dalle intemperie. L’illustre Professor Higgins (Harrison), studioso di fonetica, incontra la giovane fioraia Eliza Doolittle (Hepburn), graziosa ma inascoltabile a causa della sua pessima pronuncia della lingua inglese. Da perfetto misogino, presuntuoso e snob, scommette con un amico, il colonnello Pickering, che in pochi mesi trasformerà la rozza fanciulla in una dama dell’alta società dallo squisito eloquio, degna di essere presentata a corte. Con la prospettiva di aprire un negozio tutto suo, migliorando la propria condizione di venditrice di strada, la ragazza accetta l’ospitalità di Higgins, il quale l’affida alla sua governante. Nei mesi successivi l’inflessibile professore la istruisce, insegnandole al contempo l’esatta pronuncia della lingua e il galateo. Alle corse ad Ascot, Eliza fa il suo debutto in società, mostrandosi (quasi) impeccabile e attirando l’attenzione di Freddie, bel giovane di buona famiglia. Partecipa in seguito a un ricevimento, nel quale viene presentata addirittura a corte: la scommessa è vinta. Il guaio è che intanto il cuore di Eliza ha iniziato a battere per il suo insegnante, che soddisfatto e pieno di di sè, non se ne accorge nemmeno. Nonostante il successo, ella non si dà pace per l’indifferenza del suo pigmalione e scappa, tornando a casa dal padre, un facchino volgare e chiacchierone, che l’ha sempre sfruttata per pagarsi le sue ubriacature. Interviene la madre del gelido Higgins e tanto insiste, che il professore inizia a comprendere la situazione. Finalmente si accorge della ragazza che ha sempre avuto al fianco. Adesso Eliza è una donna fatta, che non accetta di elemosinare le sue attenzioni e gli fa capire che forse è troppo tardi: Freddie ha manifestato l’intenzione di sposarla. Higgins torna nella sua casa ormai vuota e triste. Si siede nello studio, per riascoltare la voce registrata della donna che ama. Bussano alla porta. Eliza è tornata: l’espressione del professore si apre in un sorriso.
Dal teatro al grande schermo
La MGM avrebbe fatto carte false per ottenere i diritti di My Fair Lady, il musical che a Broadway ha stracciato tutti i record, aggiudicandosi ben 6 Tony Award e restando in cartellone per anni. Lerner e Loewe hanno resistito, anche se il primo ha accettato di curare l’adattamento di Gigi per la casa del leone ruggente. Dopo un lungo corteggiamento, Jack Warner la spunta e trasporta di peso il cast teatrale negli studi della Warner Bros, affidando la regia del film che dovrà battere tutti i record, ad un maestro della commedia sofisticata: George Cukor, il quale può contare su Lerner per la sceneggiatura e su Loewe per i numeri musicali. Il protagonista maschile è l’inglese Rex Harrison, già conosciuto al grande pubblico per aver recitato in Cleopatra, al fianco di Elizabeth Taylor, interpretando niente meno che Caio Giulio Cesare. Il ruolo di Eliza Doolittle invece, in teatro, appartiene a una giovane attrice dalle eccezionali doti canore, ma ancora semi-sconosciuta al cinema: Julie Andrews. Warner la mette da parte per affidare il personaggio a Audrey Hepburn, dotata di un timbro dolce e melodioso, ma troppo flebile:nelle parti cantate sarà doppiata quasi sempre dalla collaudata Marni Nixon, la quale ha già prestato la voce a Natalie Wood in West Side Story. La Andrews ripiega su un’offerta della Disney, che la vuole protagonista in uno strano film, che mescola animazione e attori in carne ossa, anch’esso ambientato nell’Inghilterra dei primi anni del ‘900: Mary Poppins.
Il Commento del Redattore
Alla notte delle stelle del 1965, si respira aria di disfatta. Se l’anno precedente ha vinto un film britannico (Tom Jones), quest’anno la British Invasion annunciata dal tour dei Beatles, che scalano le classifiche di vendita negli USA, è incontenibile: su un totale di 20 attori nominati, gli americani sono solo 8 e, al momento di distribuire le statuette gli inglesi conquistano 3 premi su 4. Il presentatore della serata, il comico Bob Hope, non si lascia sfuggire l’occasione per una battuta: “Benvenuti a Santa Monica sul Tamigi”. A sfidarsi sono due campioni d’incassi dell’annata: My Fair Lady alla fine batte Mary Poppins per 8 Oscar a 5, ma la tata volante – che nell’Inghilterra del primo ‘900 si prende cura dei figli di un dirigente di banca freddo ed equilibrato e di una suffraggetta – sconfigge la fioraia aspirante dama. Non solo: Audrey Hepburn, preferita dalla produzione proprio a Julie Andrews, non viene neanche nominata. I giurati dell’Academy giudicano la sua un’interpretazione parziale, a causa del doppiaggio caldeggiato proprio dal padre-padrone della Warner Bros. Una Julie Andrews raggiante così conquista l’Oscar da attrice protagonista (si era già tolta un sassolino dalla scarpa qualche mese prima: ritirando il Golden Globe, aveva ringraziato Jack Warner per averla esclusa, dandole la possibilità di accettare l’offerta di Walt Disney). Al momento dell’annuncio della statuetta al miglior attore protagonista, si sfiora il caso diplomatico; la vincitrice dell’anno precedente, Patricia Neal, è ammalata e qualche genio all’Academy ha pensato bene di sostituirla con Audrey Hepburn. Tra lo stupore generale, la grande esclusa della vigilia accetta, sale sul palco e sorride con gioia sincera nel premiare Rex Harrison, il quale l’abbraccia riconoscente e poi, guardando la platea dove è seduta Julie Andrews esclama galante: “Ho recitato con due splendide Eliza” (in alto il filmato originale della premiazione). Oltre al riconoscimento per Harrison, My Fair Lady è incoronato miglior film dell’anno e regala la meritatissima statuetta di miglior regista al sessantacinquenne George Cukor. Altri 5 Oscar vanno alla coloratissima e sfavillante fotografia di Harry Stradling, alla scenografia curata da Cecil Beaton, Gene Allen e George James Hopkins, al suono, alla colonna sonora non originale e ai costumi, ancora di Cecil Beaton.
Il film è senza dubbio un capolavoro, una commedia musicale che fila per 168′, ripresa nello splendore dei 70 mm con mano sicura da Cukor, allietata da bellissime canzoni e dialoghi scintillanti. Harrison e Hepburn sono straordinari e la protagonista femminile sarà anche doppiata quando canta, ma è prodigiosa nel passare in poco più di due ore dalla parlata “cockney” tipica dei ceti più poveri della working class londinese, agli affettati accenti tanto cari ai membri dell’upper class britannica (il doppiaggio italiano, che fa parlare la fioraia in pugliese stretto, rende l’idea, ma consiglio la visione in lingua originale, magari sottotitolata, per cogliere tutte le sfumature della sua eccezionale metamorfosi linguistica). Tra tutti spicca, con la sua umanità e sensibilità, la giovane Eliza Doolittle, magnificamente vestita, educata sì, ma dotata di spirito e di un cuore grande e generoso.
Voto 8,5 su 10.
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