In questo ancora torrido weekend tra agosto e settembre, il Circus della Formula 1 sbarca finalmente a Monza per l’edizione n⁰ 95 del Gran Premio d’Italia. Favorito alla vigilia per la vittoria di tappa appare Lando Norris, la cui McLaren ha impressionato nell’appuntamento di settimana scorsa a Zandvoort – e in tal senso occhio pure al compagno di squadra Oscar Piastri –, ma di certo sia il Campione del Mondo Max Verstappen su Red Bull che i ferraristi Charles Leclerc e Carlos Sainz tenteranno in ogni modo di sovvertire il pronostico.
(A giudicare dalle prove libere del venerdì, da non sottovalutare sono pure le redivive Mercedes di Lewis Hamilton e George Russell).
Il Circuito di Monza, però, non è solo attualità, è anche parte della storia del cinema. Il cinema che sarà, pensando a F1, il film con Brad Pitt le cui riprese, dopo quelle già raccontate a Silvestone, sono continuate il mese passato sulla pista brianzola.
Ma anche il cinema che fu, come, per portare un esempio, il Rush di Ron Howard, in cui un convalescente Niki Lauda – interpretato da Daniel Brühl – torna stoicamente a gareggiare proprio a Monza 42 giorni dopo il rogo che lo aveva sfigurato e intossicato nel terribile incidente al Nürburgring Nordschleife.
Tuttavia, il capostipite di tutti i film sul mondo delle corse è chiaramente Grand Prix del 1966, il cui tragico e spettacolare finale si consumerà tra un salto nel vuoto alla curva Parabolica e la bandiera a scacchi della gara italiana, che, ultima data di un fittizio mondiale anni sessanta, sarà inoltre decisiva per l’assegnazione del titolo, conteso fino al traguardo tra i piloti protagonisti della pellicola.
E, appunto per celebrare Grand Prix, nell’articolo mi dedicherò a sviscerarti qualche curiosità in più sull’opera diretta da John Frankenheimer, la quale, tra Grande Schermo e brivido della velocità, è ormai da tempo divenuta pietra miliare dell’immaginario collettivo.
Grand Prix e le tecniche di regia
La regia di Grand Prix segnò l’epoca per le immagini delle corse. Fu, infatti, uno dei primi casi in cui le cineprese furono montate direttamente su delle vetture di simile potenza – nel caso specifico, monoposto di Formula 3 opportunamente camuffate per assomigliare a quelle di Formula 1, più l’ausilio di una Ford GT40 e una AC Cobra per coprire alcune scene –, con l’effetto di restituire al pubblico l’adrenalina della competizione nel modo più realistico possibile.
John Frankenheimer, inoltre, per la medesima motivazione, non adottò alcuna contromisura per attenuare le vibrazioni delle telecamere, rendendo l’instabilità visuale una cifra stilistica del film.
Sempre all’avanguardia per i tempi, infine, fu l’utilizzo dello split screen, la tecnica con cui a schermo vengono poste in essere più inquadrature contemporaneamente. Iconico, in tal senso, è il già citato climax conclusivo della pellicola, in cui lo spettatore deve destreggiarsi allo stesso tempo tra i protagonisti a 300 all’ora nelle insidie di Monza e i loro momenti di vita quotidiana.
Il cast stellare
Il cast di Grand Prix, al netto dei rifiuti che scoprirai nel prossimo blocco, fu decisamente importante.
James Garner, volto notissimo a livello televisivo – vanta pure una stella alla Hollywood Walk of Fame nella categoria Star della TV – nonché protagonista di numerose commedie western tra gli anni ’60 e ’70 , ebbe ruoli di tutto rispetto nella storia del cinema, dal flight lieutenant Robert Hendley de La grande fuga di John Sturges fino a Murphy Jones in L’amore di Murphy di Martin Ritt, ruolo grazie al quale fu candidato all’Oscar come miglior attore nel 1986.
Yves Montand, francesizzazione dell’originario Ivo Livi, dopo il suo arrivo a Parigi nel 1944 ebbe l’occasione di diventare spalla di Èdith Piaf per uno spettacolo al Moulin Rouge, per poi instaurare con lei una relazione sentimentale.
Ebbe una relazione anche con Marilyn Monroe, conosciuta sul set di Facciamo l’amore del 1960, pellicola diretta da George Cukor la quale fu, tuttavia, un autentico fiasco.
In precedenza, nel 1946, Yves fu il Diego di Mentre Parigi dorme, in cui fu inserito il brano cavallo di battaglia dell’attore francese nonché uno dei più celebri della cultura transalpina, ovvero Les feuilles mortes.
Montand, inoltre, divenne istrione prediletto del regista Costa-Gavras, sotto la cui direzione recitò in Z – L’orgia del potere – Premio Oscar 1970 come miglior film straniero e per il miglior montaggio –, La confessione e L’Amerikano.
Eva Marie Saint, invece, già prima di Grand Prix poteva vantare un Premio Oscar nel 1955 come migliore attrice non protagonista in Fronte del porto di Elia Kazan, opera la cui star principale era Marlon Brando.
L’attrice statunitense si segnalò anche per le sue partecipazioni a film indimenticabili quali Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, Exodus, Castelli di sabbia e Arrivano i russi, arrivano i russi.
In ultimo, è da segnalare come in Grand Prix il ruolo Izo Yamura, il proprietario dell’omonima scuderia per cui correrà Pete Aron, ebbe l’onore di essere affidato a uno dei più grandi attori di tutti i tempi, ossia Toshirō Mifune.
Il buon Toshirō è soprattutto noto per le sue straordinarie partecipazioni a 16 film di Akira Kurosawa – quali ad esempio Rashomon o I sette samurai –, con il quale sancì un sodalizio difficilmente replicabile nella storia del cinema giapponese.
Gli attori che dissero no
Ben prima del Le Mans con Matt Damon e Christian Bale del 2019, era già uscito nel 1971 un film sulla storica competizione endurance in terra d’oltralpe, ovvero Le 24 ore di Le Mans di Lee H. Katzin, con attore protagonista il leggendario Steve McQueen.
E proprio Steve McQueen fu in origine la scelta per il ruolo principale di Grand Prix, ma lui, durante l’incontro con la produzione, si mostrò scarsamente interessato al progetto.
In seguito in buon Steve sì pentì della sua decisione, divenendo addirittura furioso quando la parte andò a James Garner, suo amico e vicino di casa con cui non parlò per quattro anni a causa di questa vicenda.
Jean-Paul Belmondo, l’eterno “rivale” dell’appena scomparso Alain Delon, invece, rifiutò la parte del giovane Nino Barlini, e lo stesso Paul Newman, pur preso in considerazione per un ruolo nella pellicola, alla fine non fece parte del cast.
Sul versante femminile spicca il no di Monica Vitti per vestire i panni di Louise Frederickson, la giornalista con cui Sarti avvierà una relazione all’interno dell’opera.
La parte andò inizialmente a Harriet Andersson, che, però, non piacque a Garner, il quale la fece sostituire con Eva Marie Saint, l’interprete definitiva del personaggio di Louise.
Le controfigure
Il perfezionismo e la ricerca di realismo da parte di John Frankenheimer lo portarono a evitare il più possibile l’uso delle controfigure.
La cosa funzionò molto bene con James Garner, il quale, stando a quanto disse Jim Russell – l’istruttore di guida sportiva da cui gli attori presero lezioni – avrebbe potuto gareggiare contro piloti professionisti tanto era abile alla guida.
Giudizi decisamente diversi furono dati da Jim agli altri protagonisti, ma se Yves Montand e Antonio Sabàto se la cavarono con un “non hanno idea di quello che fanno, ma per le riprese sono passabili“, il povero Brian Bedford fu giudicato totalmente negato nonché assolutamente impresentabile.
Tuttavia, al di là delle diverse attitudini automobilistiche degli attori, certe sequenze fu necessario affidarle a professionisti, e spesso l’esperto chiamato in causa fu il Campione del Mondo 1961 Phil Hill.
Tragica, invece, fu la partecipazione al film di Nino Farina, il Campione del Mondo 1950 – 1950 che fu, tra l’altro, la prima edizione del mondiale di Formula 1.
Nino, infatti, assunto come consulente tecnico e parziale controfigura di Yves Montand, si stava dirigendo al Gran Premio di Francia per assolvere al suo ruolo quando disgraziatamente morì schiantandosi con la sua auto.
Le ispirazioni per i personaggi
Per l’estetica del casco – e talvolta anche per il nome – il regista si ispirò a piloti reali, al fine di rendere massimamente credibili i personaggi da mettere in scena.
Il protagonista, Pete Aron (James Garner), è un omaggio a Chris Amon, ossia colui che nella realtà è considerato il più grande pilota a non aver mai vinto un Gran Premio, la cui sfortuna è divenuta talmente celebre da aver fatto dire a Mario Andretti – il Campione del Mondo 1978 – la sarcastica frase “se Chris Amon facesse il becchino la gente smetterebbe di morire“.
Scott Stottard (Brian Bedford) ha un chiaro riferimento a livello cromatico al “copricapo” di Jackie Stewart, Campione del Mondo 1969, 1971 e 1973, nonché, ad oggi, il più anziano vincitore di un titolo iridato ancora in vita.
Jean-Pierre Sarti (Yves Montand) è una sorta di francesizzazione del britannico John Surtees, Campione del Mondo nel 1964 con la Ferrari, ma anche – e qui sta il record, essendo infatti l’unico iridato sia su due che su quattro ruote – 7 volte Campione del Mondo di motociclismo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, ottenuti prevalentemente con la stessa MV Augusta che qualche anno dopo avrebbe fatto la fortuna pure del nostro Giacomo Agostini.
Il quarto protagonista, Nino Barlini (Antonio Sabàto), è correlabile a Lorenzo Bandini, alfiere della scuderia di Maranello che spirò nel Gran Premio di Montercarlo del 1967 in una dinamica molto simile a quella mostrata in apertura del film.
Quasi superfluo sottolineare a chiunque conosca Grand Prix che i destini dei personaggi sono molto diversi da quelli di coloro da cui trassero ispirazione.
Il vero GP di Monza del 1966 (e il vincitore del mondiale)
Nella realtà, il Gran Premio d’Italia non fu l’atto finale della stagione 1966 – prima di mettere a tacere i motori quell’anno ci furono anche gli appuntamenti di Stati Uniti e Messico – e a tagliare per primo il traguardo dei 68 giri non fu il Pete Aron interpretato da James Garner, ma Ludovico Scarfiotti, ossia l’ultimo italiano – perdipiù con la Ferrari – a uscire vittorioso dalla gara di casa.
Ad aggiungere magia all’avvenimento, si consideri poi che quella fu l’unica doppietta nel campionato del Cavallino Rampante – con l’inglese Mike Parkes a completare l’uno-due –, ma, soprattutto, che Monza ‘66 fu l’unico successo in carriera di Scarfiotti, il quale morì solamente due anni dopo in un incidente durante una cronoscalata a bordo di una Porsche 909 Bergspyder a Rossfeld.
Per quanto riguarda il titolo, invece, a prevalere fu l’australiano Jack Brabham su Brabham (sì, il buon Jack può vantare di essere l’unico pilota nella storia ad aver vinto il campionato su un’auto di cui era pure il costruttore), al terzo iride mondiale dopo i successi del 1959 e 1960.
I 3 Premi Oscar
A fare incetta di Oscar – ben 6, tra cui i premi per il miglior film, per la miglior regia e per il miglior attore protagonista a Paul Scofield – nel lontano 1967 fu Un uomo per tutte le stagioni, diretto dal Maestro Fred Zinnemann.
Liz Taylor, in quella stessa edizione, si portava a casa per la seconda volta la statuetta di migliore attrice protagonista grazie alla sua performance in Chi ha paura di Virginia Woolf?, dopo la sua precedente affermazione nel 1961 per Venere in visone.
Ma anche il nostro Grand Prix si tolse le sue soddisfazioni: infatti, a trionfare nelle categorie miglior montaggio, miglior sonoro e migliori effetti sonori dell’Acedemy Award fu proprio la pellicola di John Frankenheimer, la quale, però, non riuscì ad aggiudicarsi alcunché ai Golden Globe, nonostante la candidatura come miglior attore debuttante di Antonio Sabàto e quella come migliore attrice debuttante di Jessica Walter.
Unica vittoria di Scarfiotti, in Formula 1, perchè a ruote coperte ha vinto quasi tutto, prototipi, montagna, gran turismo etc. etc