(Come promesso, ti ho spedito la mia autobiografia con dedica. È stato un privilegio conoscerti, mia dolce Simone Simon…).
Ero ancora scosso dall’attacco a Pearl Harbor, quando decisi di tornare a New York. Quel John Edgar Hoover mi aveva messo i bastoni tra le ruote dal primo momento. Lui e il suo maledetto FBI. Il mio questionario era profetico, i giapponesi avevano chiaramente intenzione di attaccare la flotta americana nel Pacifico. Ma quei testoni ignorarono i miei avvertimenti. Accidenti, se mi avessero ascoltato, 60 anni dopo avrebbero impedito a Michael Bay di girare un film su quella tragedia. Ah, la guerra. Quanti danni ha provocato alla storia del cinema…
Ad ogni modo, volevo distrarmi da tutto ciò, e mi diedi ai piaceri che la Grande Mela offriva. Fu in quel periodo che conobbi Simone Simon. Aveva appena completato le riprese del suo ultimo film a Hollywood, e aveva preso un appartamento in affitto al settimo piano del mio palazzo. Un giorno, sul pianerottolo, mi presentai. Il mio nome è Popov, Duško Popov.
Qualche mese prima, nel casinò di Estoril, un giovane scrittore inglese aveva assistito a un mio approccio simile a una incantevole pokerista. Poco dopo, più per sfizio che per fare lo splendido, decisi di sfidare apertamente un lituano di nome Bloch, il quale continuava a giocare forte al tavolo del Baccarat. Puntai i 50 mila dollari che avevo per la missione; il lituano tornò a casa con le pive nel sacco.
Quell’inglesino di cui parlavo, poco più che trentenne, si chiamava Fleming, Ian Fleming. Da quella scena trasse poi ispirazione nel 1953 per Casinò Royal, il primo romanzo con protagonista James Bond, l’iconico agente 007 il cui franchise ha avuto, com’è noto, anche molta fortuna sul Grande Schermo.
(Ci tengo a precisare che io sono più fico di Daniel Craig…).
Ma torniamo a Simone. I suoi occhi profumavano della bellezza del mondo. Avevamo il nostro tavolo per due in ogni ristorante glamour della città, e ormai eravamo di casa al Morocco e allo Stark Club. Fu proprio in una di quelle cene, davanti a un gustoso calice di lambrusco, che la meravigliosa Simone Simon mi raccontò tutto (o quasi) della sua incredibile vita da star.
Simone Simon, una marsigliese da Settimo cielo
Sono nata a Marsiglia, il 23 aprile 1911. Non so dove e quando morirò, nessuno può saperlo, caro Duško, ma se potessi scegliere opterei per Parigi, magari il 22 febbraio 2005. La Tour Eiffel, e i fiori delicati. Promettimi solo che mi citerai nella tua autobiografia, qualche pagina, non di più. Forse uno sprovveduto cinefilo del futuro saprà così chi sono stata…
Ma dicevo. Mio padre Henry è un ingegnere, ora con la guerra pilota anche gli aerei. Temo possa finire in un campo di concentramento, è ebreo. Mia mamma Erma non è francese, ma italiana. Fa la casalinga. Uno di questi giorni dovrebbe passare a trovarmi, quindi se vedi due Simone Simon nel palazzo non spaventarti, tutti dicono che siamo due gocce d’acqua. Pensa che a volte ci scambiano per sorelle.
I miei si sono separati quando avevo 3 anni, poi mamma mi ha portata in Madagascar. Non siamo state lì molto; ho studiato a Budapest, Torino e Berlino, prima di tornare a Marsiglia. A 20 anni sono andata a vivere a Parigi. Lì per un po’ ho fatto la modella, la cantante, e pure la stilista. Ero sempre al Théâtre des Bouffes-Parisiens. Ho persino pensato di fare la scultrice, pazza che sono, ma in estate ero sulla terrazza di uno di quei posticini chic che mi piacciono tanto, quando mi ha notata Victor Tourjansky, un regista emigrato in Francia dopo la Rivoluzione Russa che ora sta in Germania. Pare se la passi bene con i nazisti.
Il mio film di debutto con lui fu Le chanteur inconnu, la storia di un cantante creduto morto che torna dopo diverso tempo dalla Russia. Piccolo inconveniente: è fisicamente irriconoscibile e, inoltre, ha perso la memoria. La moglie però lo ama ancora. A volte noi donne siamo davvero strane.
Però, come dovresti ben sapere, sono diventata famosa con Il lago delle vergini (Lac aux dames), pellicola diretta da Marc Allégret del 1934. Non ti racconto manco la trama, perché un bel giovanotto che lavora per il governo jugoslavo come te non può non avere visto questo film. Sai, devo molto della mia carriera a Marc. Siamo stati anche intimi per qualche tempo, sì. Siamo persone di mondo.
Per Marc ho recitato anche l’anno seguente in Occhi neri e ne Il sentiero della felicità, poi il produttore Darryl F. Zanuck, folgorato dalla mia interpretazione ne Il lago delle vergini, mi ha portata a Hollywood. In genere agli attori danno mesi di tempo per imparare un inglese decente, a me hanno dato appena qualche settimana. Mi sono sentita sotto pressione.
Nonostante le difficoltà, mi è parso che le cose andassero bene oltreoceano, ma nel 1936, durante la produzione di Sotto due bandiere, mi hanno licenziata. Sia Zanuck che Frank Lloyd, il regista del film, hanno osato dirmi che era impossibile lavorare con me, perché ero capricciosa. Capricciosa, io? So solo dare a me stessa la giusta importanza…
Ufficialmente abbiamo imputato la mia fuoriuscita dalla pellicola a problemi di salute, ma la verità è che non ero abituata allo stile di vita americano. Lavorare con Marc era più semplice. Ho pensato seriamente di tornare in Francia.
Collegio femminile, sempre del 1936, doveva essere l’opera cinematografica dell’anno. Ma le cose quando mai vanno come previste. Ero la coprotagonista, però quella Ruth Chatterton, la star della pellicola, piagnucolava. Diceva che la produzione mi stesse dando troppe attenzioni. Assurdo. Ruth l’invidiosa. Non farmici pensare, perderei la grazia. Duško, per favore, potresti versarmi un po’ di vino? Grazie, sei un tesoro. Come noi umani, anche il lambrusco migliora da un po’ brilli. Non ti pare? Beh, ovviamente, quasi inutile aggiungere che Collegio femminile è stato un mezzo flop al botteghino. Pochi anni, e nessuno già lo ricorda.
La 20th Century Fox mi ha poi inserita in Ragazze innamorate, una commedia romantica diretta Edward H. Griffith. Mi pare fosse ancora il 1936, ma inizio a non essere più sicura di nulla. Al solito, non è andata granché bene. Janet Gaynor, Loretta Young, Constance Bennett. Le chiamano stelle, sono solo arpie. E hanno pure il coraggio di dare a me della difficile…
Hai visto il mio Settimo cielo? L’originale del 1927 non è malaccio, ma non dirò mai che è un bel film, nemmeno se me lo chiedessi tu. Janet, maledetta, ci ha vinto un Oscar. Il nostro remake del 1937, diretto da Henry King, dicono sia stato un fiasco. Pazienza, non m’importa più cosa dicono gli altri. Sì, è stato il primo film in cui James Stewart ha avuto il ruolo di protagonista. Sono contenta che quest’anno ha vinto l’Oscar. Scandalo a Philadelphia è proprio un capolavoro. Se lo merita l’Oscar, lui.
Nel 1938 mi sono decisa, sono tornata in Francia. Mi mancava Parigi, sì. Non sopportavo più l’America, in quel momento. I film andavano come andavano, e poi il gossip. Via, basta. Me ne torno in Francia una volta per tutte, mi sono detta. In patria, quell’anno, ho recitato in L’angelo del male (La Bête humaine) di Jean Renoir. Fu un grande successo, di certo lo hai visto. È tratto da un romanzo di Émile Zola, la Bestia umana. L’hai letto? Strano, tu di solito leggi tutto. Eh già, era proprio una malandrina Séverine. E tu, Duško, dimmi, per avermi tutta per te saresti disposto a uccidere qualcuno?
Simone Simon, la seconda volta a Hollywood e Il bacio della pantera
Per uno che fece il doppiogioco con l’Abwehr, mentire non fu un problema. Risposi sì all’ultima domanda, per compiacerla un po’. Lei sorrise, era sempre così piena di vita anche quando parlava di argomenti seri. Ricordo bene, con accanto Simone Simon era impossibile essere tristi. Ti contagiava con il suo entusiasmo. Passavano in secondo piano i suoi momenti da capricciosa. In effetti, però, un filo di malinconia dietro al lambrusco quella sera lo ebbe.
La prospettiva del French Play Festival in Québec per raccogliere i fondi per la guerra, fortunatamente, l’avrebbe resa presto vispa come al solito. Non si può avere idea quanto Simone Simon amasse le feste. Per non parlare dello champagne, che a casa beveva spesso acciambellata sul divano, felina, con il calice tenuto a due mani. Io, per mio conto, avrei voluto sfruttare il viaggio in Canada per la questione dell’apparecchio dei micropunti.
Come per me, anche per Simone lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale cambiò le carte in tavola. Abbandonò l’Europa e tornò in America. Qui, nei primi anni ’40, ebbe i migliori successi in lingua inglese.
Per RKO Pictures, una delle major nel periodo d’oro di Hollywood, impersonò il ruolo di Belle ne L’oro del demonio, pellicola del 1941, diretta da William Dieterle, con la quale il compositore Bernard Herrmann si aggiudico l’Academy Award per la migliore colonna sonora in un film drammatico.
In seguito, tra il 1942 e il 1944 Simone Simon, grazie al produttore Val Lewton, fu protagonista de Il bacio della pantera (Cat People), diretto da Jacques Tourneur, e Il giardino delle streghe (The Curse of the Cat People), diretto da Gunther von Fritsch e Robert Wise, entrambi considerati dalla critica come ottime realizzazioni di film horror raffinati.
Da qui in poi, ahimè, la carriera di Simone Simon, dopo l’apice negli anni in cui la frequentai, si eclissò. Solo film non all’altezza della sua capacità di stare davanti alla cinepresa. Ma di questo, cara Simone, non parlerò. Sono un gentiluomo, io.
Alla cena dopo il Canada, in cui Simone mi perdonò per non essere riuscito a raggiungerla, mi confessò che probabilmente non avrebbe mai voluto sposarsi, né avere figli. Non so perché me lo disse, ma così fece alla fine nella vita. Voleva essere libera. Capricciosa e sensuale, come solo lei sapeva essere. In due parole, voleva essere semplicemente Simone Simon.