Che sagoma Richard Jenkins. Lo conosco da sempre, da quando ho memoria, dediti alle scorribande giovanili per tutta DeKalb, la città dell’Illinois che gli ha dato i natali 78 anni fa, il 4 maggio 1947. Sua madre, dovevi vederla, un cinema ogni volta, preparava delle torte da fine del mondo, con quel buffo modo di sgridarlo se si dimenticava, ci teneva a essere chiamata Mary Elizabeth, per esteso, da fiera casalinga qual era. Aveva sposato un dentista, Dale Stevens Jenkins, un democratico dal sorriso facile, in grado di spaziare dal First Folio di Shakespeare all’Impero di Gengis Kahn, con particolari sulla legione straniera raccontati dai clienti d’oltralpe.
Stessa classe alla DeKalb High School, stesse simpatie, stessi improbabili professori. Ne abbiamo combinate di tutte, dai giornali sotto le porte ai discorsi su Dio e l’Unione Sovietica, tema caldo, quell’aprile, per via delle voci su un possibile avvicendamento di Krusciov, con il bandito Breznev in lizza per la successione.

Non ha mai rinunciato alla cultura, nemmeno nel periodo da camionista, intento a leggere libri appena possibile, con la predilezione assoluta per il capolavoro di Herman Melville Moby Dick, oggetto di commenti entusiastici in acqua, durante un tuffo in piscina o nei weekend improvvisati al mare della California.
A capo dell’azienda di trasporti, non ricordo il nome, è passato troppo tempo, c’era il padre di John C. Reilly, attore e volto noto di Chigago, protagonista di opere iconiche, quali Fratellastri a 40 anni, affianco a Will Ferrell, e Carnage, diretto da Roman Polanski, oltre a numerose partecipazioni alle pellicole di Paul Thomas Anderson, con la fortuna, bontà sua, di evitare Il Petroliere.
Gli studi alla Illinois Wesleyan University di Bloomington, certo, ma l’arte drammatica non è qualcosa da apprendere in teoria, mi diceva beffardo, così Richard decise di trasferirsi nel Rhode Island, sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove a Providence si unì alla Trinity Repertory Company, compagnia teatrale della capitale dello stato, di cui sarà poi anche direttore artistico tra il 1990 e il 1994, oltre a entrare nella Screen Actors Guild, sindacato di riferimento degli istrioni indipendenti.
Richard Jenkins, camaleonte e caleidoscopio di emozioni
Ho avuto la parte, ho avuto la parte. Richard era fuori di sé per la gioia la sera che mi ha annunciato il debutto. Un film per la televisione, Feasting with Panthers, una comparsa e poco più, vero, ma doveva pur iniziare da qualcosa. E allora giù di gin tonic, con Rebel Rebel di David Bowie in sottofondo, uno dei sette concerti trasmessi dalla radio pubblica nel 1974.
In visibilio, la mattina dopo corse nella sua stanza, alzò il telefono e chiamò il manager, che da buon maltese aveva i contatti per una carriera top, uno che se buttavi un nichelino per aria difficilmente lo lasciava cadere, pieno di idee.
Lo aspettava a Hollywood, con i sacchi di scarpe italiane e la campanellina attivata, perso nei granelli di sabbia del giardino, con gli aneddoti di quando era a fare la maschera in sala ai film di Larraín. E da qui il climax di successi degli anni ’80, Silverado (1985), Hannah e le sue sorelle (1986), Le streghe di Eastwick (1987), Il sentiero dei ricordi (1988), Seduzione pericolosa (1989), fino a quelli degli anni ’90, La chiave magica (1995), Gli anni dei ricordi (1995), Amori e disastri (1996), Eddie – Un’allenatrice fuori di testa (1996), La neve che cade sui cedri (1999).
E poi il sodalizio con Peter e Bobby Farrelly, Tutti pazzi per Mary (1998), L’occasione per cambiare (1999), l’erotico Io, me & Irene (2000), Dimmi che non è vero (2001), culminato con la commedia Libera uscita (2011). Sempre in tema broder, ecco Richard financo in tre film di Joel ed Ethan Coen, L’uomo che non c’era (2001), Prima ti sposo poi ti rovino (2003) e Burn After Reading – A prova di spia (2008).
Partecipa anche a North Country – Storia di Josey (2005), The Kingdom (2007) e al già citato Fratellastri a 40 anni (2008), prima di Dear John (2010), Mangia prega ama (2010), con Julia Roberts e Javier Bardem sempre sugli scudi, e Amici di letto (2011).
Un caratterista, come accennato, con la grazia di calarsi in qualsiasi situazione, quasi mai protagonista della vicenda, ma star eccentrica e camaleontica, in grado di passare da fine pensatore a guerriero col famas in un battito di ciglia, sagace e brillante con le donne quanto impacciato e asceta dell’esistenza, come nel secondo film che lo ha candidato a un Oscar, The Shape of Water di Guillermo del Toro (2017), dove è narratore inaffidabile della storia di Elisa Esposito, la quale, affetta da mutismo, amia la creatura anfibia rinchiusa nel laboratorio dove fa le pulizie.
Una pellicola di emarginazione e riscoperta, nell’America tracciata da Pollaster, abbastanza dinosaura da rendere scandalose cose che non avrebbero dovuto esserlo, perché non c’è nulla di male a dipingere come si vuole, ora come allora.
Ma, al di là della sfilza di film successivi che non ho tempo di nominare, voglio chiudere con l’unica opera da personaggio principale da lui interpretata, L’ospite inatteso (2009), diretto da Tom McCarthy. Un premio Oscar, a differenza dell’altro, questa volta come migliore attore protagonista, in una favola post 11 settembre e Federal Hall di amicizia e immigrazione, dai toni agrodolci e non chiari in prima visione.
Chiudo, e poi mi taccio, con un cenno sulla vita privata. Il buon Richard ha sposato la coreografa Sharon R. Friedrick, in data 23 agosto 1969, e la coppia, congratulazioni vivissime, ha avuto due figli, Andrew Dale e Sarah Pamela.