La vincita di Nomadland agli Oscar non ha poi stupito poi così tanto, il film vincitore del Leone d’oro alla passata edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia era sicuramente quello più quotato per ottenere quella statuetta.
Chloé Zhao prende questo nuovo racconto dal libro di saggistica scritto da Jessica Bruder ed intitolato originalmente Nomadland: Surviving America in the 21st Century.
Di cosa parla Nomadland?
Siamo nel 2011 e la protagonista è Fern, interpretata magistralmente dalla McDormand, una signora che dopo aver perso tutto (anche suo marito) decide di mettersi in viaggio con il suo van e fare una vita da nomade. Una decisione forzata visto le nuove modalità di lavoro, dove non c’è nulla sicurezza e le possibilità di lavoro si fanno inseguire tra un paese e l’altro degli Stati Uniti.
Come il libro non c’è la volontà di creare una storia di riscatto ma seguire scrupolosamente quello che succede come se fosse un vero e proprio documentario.
Nel 2011 infatti Fern si trova costretta a lasciare la sua città, Empire, quando questa si trova a diventare una delle numerose città fantasma che costellano gli USA. Il primo lavoro che trova fuori di essa è dentro ad Amazon per il programma CamperForce, nato per coinvolgere i pensionati che vivono nei camper.
La vita che ci passa di fronte in tutto il film è appunto chi per decisione o costretto da forze esterne vive nei camper.
Le persone in cerca di una vita senza costrizioni e legami sono radunate nel Rubber Tramp Rendezvous, sotto la supervisione di Bob Wells.
Vivere viaggiando tra un paese e l’altro, senza niente di fisso e tutto da ricostruire può sembrare per molti che lo vedono da fuori una cosa entusiasmante e liberatoria.
Ma Chloé Zhao non ci risparmia i lati più oscuri e decisamente meno affascinanti di quello che questo stile di vita comporta: fare i bisogni in un secchio o lungo la strada, senza punto fermi che le possano permettere di stabilizzare la sua vita, come una nave che in mezzo ad una bufera nell’oceano non riesce a raggiungere un porto dove poter essere al sicuro.
Nomadland vuole farci vedere senza fronzoli quelle persone e quei luoghi dell’America dimenticati per far spazio alle grandi città, lasciando sotto al tappeto le realtà che questa nuovo stile frenetico comporta.
Nomadland può essere classificato come un film non-narrativo, molto vicino alla lirica che si respira nelle opere di Terrence Malick o quello più realistico di Ken Loach.
L’intento di Zhao è chiaramente quello di smontare pezzo per pezzo quello che è stato per secoli il sogno americano, quello che il duro lavoro possa ripagare di tutto, portando al successo e alla stabilità nella vita. Un sogno illusorio che ignora le anime che macina e divora per far si che pochi riescano a realizzarlo.
Parte della riuscita di Nomadland è sicuramente per la graffiante interpretazione di Frances McDormand nei panni di Fern (cosa che sicuramente non ci stupisce), un altro ruolo da outsider che le ha permesso di guadagnandosi il suo terzo Oscar come miglior attrice.
Non c’è un dramma che ti colpisce il viso in pieno volto subito, ma sono dei ritratti delicati che riescono ad entrarti nel cuore senza che tu possa rendertene conto prima.
In Nomadland non ci sono contrasti in primo piano, tutto quello che potrebbe incidere (come morti, problemi di salute e scontri familiari) avviene in secondo piano, fuori dalle inquadrature.
Non c’è un risoluzione nel finale, e forse questo potrebbe deludere qualcuno, ma Nomadland vuole raccontare un viaggio quando esso ancora è alla metà del suo percorso.