Dai produttori esecutivi di Stranger Things, Notorious Pictures presenta Never Let Go – A un passo dal male diretto da Alexandre Aja e interpretato da Halle Barry, Anthony B. Jenkins e Percy Daggs IV. Un thriller survival horror americano, che a che fare con una serie di eventi legati ad un demone del male, che infesta e invade la vita familiare di una giovane madre, intenta con riti benedetti e pratiche esorciste a sradicare lo spirito maligno dalla loro casa. Tutto quello che serve è una corda, legata alla struttura dell’abitazione, una sola regola, rimanervi sempre legati e non staccarsi mai.
Never Let Go-A un passo dal male: la trama
Una madre, isolata dal mondo, vive in una lugubre foresta infestata da un male senza nome. Governa e sussurra alle menti, cammina e si aggira intorno alla casa dove la giovane donna vive reclusa con i due figli. Un epilogo apocalittico, il mondo è finito, e quello è l’unico posto dove poter sopravvivere.
Quella casa, benedetta dai suoi antenati è l’unico motivo che permette ai tre di vivere, senza che il male li tocchi. Per restare vivi si nutrono dei pochi animali che vivono lì, insetti, rane e le poche verdure che riescono a coltivare. Per uscire dalla casa però, devono tenersi sempre legati ad una corda, quella che purifica e trapassa l’energia della casa, che li protegge e li rende intoccabili dal demone del male.
Se la corda si spezza, allora il Male prenderà la tua anima, e lentamente impazzirai.
Never Let Go- A un passo dal male: la recensione
Un horror thriller che sicuramente non punta a terrorizzare, e intimorire lo spettatore. A tratti segue una trama interessante, aldilà del solito clichè del demone del male, l’appiglio della corda è un’interessante escamotage per liberarsi della tipica struttura del thriller. Un elemento che tiene legato vita e morte dei protagonisti, che si ritrovano a combattere contro qualcosa che non vedono, e non percepiscono, eccetto la madre.
Tra riti magici, prove di esorcismo discutibili, e scene strappalacrime, il film si evolve su una struttura bene fatta, poco sangue, no splatter, e fatto bene. Le scene più intriganti, sono portate a termine con un’ingegnosa attenzione dei dettagli, soprattutto la scena finale dove lo spirito si scarnifica dalla pelle umana della protagonista fino a raggiungere l’apparato scheletrico e scomparire in mille brandelli nell’aria. Un efficace e irruento guizzo dentro il body horror, che segna sicuramente una fine più eclatante del film stesso.
La scenografia segue la tipica costruzione perturbante, con una serie di riprese dall’alto e la comune fitta ombra utilizzata per descrivere la foresta infestata. Nulla di nuovo. E sopratutto pochi colpi di scena nella realizzazione della paura stessa. Uno spirito, presente nell’aria infesta la vita dei protagonisti, ma alla fine come quasi in ogni thriller trova un suo lieto fine. O almeno in parte.
Il tutto rimane sospeso tra metafore di vita e banali rimandi a film già visti tra cui Birdbox e The Watchers, dove l’inizio sembra quasi irrompersi nello stesso scenario. Come quasi in tutte le opere di Shyamalan è presente una lettura retorica sulla vita, e specialmente in questo film si concentra sulla maternità, con uno squarcio sulla tematica familiare e il contrasto tra cultura e natura.
Da una lunga e logorante descrizione sulla vita che i personaggi conducono, senza troppi dettagli di come siano effettivamente arrivati al quel punto, (ad esempio a mangiare cortecce di alberi), fino a una serie di eventi repentini, come se da un momento all’altro il demone si svegliasse di botto o semplicemente si liberasse della ninfa vitale che lo mantiene vivo, ovvero la donna.
E poi le illusioni, i giochi mentali del male, che quasi sempre prendono la stessa forma; vedere i propri cari uccidersi o uccidere, o avere visioni intimidatorie (bambini che hanno bisogno di aiuto) che scavano nella coscienza e distorgono la nitidezza dalle cose. L’ emotività gioca sempre un ruolo fondamentale e diventa l’unica arma del male. Strano come ogni volta, la presa del demone attiri solo esseri umani senza corrompere la natura animale. Quasi come se tutto fosse scontato e intrinsicamente irrelevante.
Never Let Go, il male è così banale da sconfiggere?
Ogni volta, in un modo o nell’altro, l’uomo ha la meglio, che sia contro uno spirito demoniaco o l’essenza di un male incanalato nella psiche umana. E questa volta, viene da pensare su come non vi ci sia arrivati molto prima a quel determinato momento narrativo, dato che niente irrompe l’equilibrio primordiale dei tre, alle prese con la convivenza quasi surreale e allegorica con lo spirito. Solo l’intuizione del più piccolo porta a infrangere le regole del sistema creato dalla madre, una fuga per scappare dal mondo e dalla sua realtà ormai distrutta. Una accidentale evasione della realtà artificiosa, tra ciò che è reale e no, che porta ad una serie di rivelazioni (evidenti già dall’inizio del film).
La goccia fa traboccare il vaso e l’intero mondo della protagonista crolla, per mano del figlio. Dallo shock provocato dall’intenzione di abbattere il loro fedele compagno domestico, il cane Koda, come unica speranza di sopravvivenza fino al capovolgimento della storia stessa. Il film si riprende grazie all’attenta decisione di mettere in palio quello che è umanamente inaccettabile, tra lo squallore e la suspence, la narrazione continua sul flusso metodico della fuga e della realizzazione di un mondo vero e reale.
Un colpo di scena, che in realtà non colpisce, ma rende banale ancora di più l’intera visione della pellicola. Che fin da subito si presenta come un finale apocalittico e una plausibile invasione di zombie. Poiché tutto sembra possibile, e pensabile, dato che l’origine del male, non viene mai spiegata o contestata.
Tra tutto o niente, la fine più gettonabile è tra una iridescente vampata di fiamme, che divora la casa e quasi sempre viene assimilata all’essenza e allo strumento del male. Che guarda caso riesce ad essere estirpato, grazie all’ossessiva filastrocca ripetuta fin dal principio: Bidibodibù e il mostro non c’è più. E’ facile come bere un bicchier d’acqua, o almeno è facile per quasi la maggior parte dei film thriller.
Un elemento che emerge nel film e poi è lasciato al caso, è il passato della protagonista, svelato a tratti nella maniera più frettolosa possibile. Dei segni e tatuaggi particolari non ne viene menzionata la simbologia, nonostante vi si potesse ricavare un’artificioso contesto originale. Tutto è frutto di una rielaborazione interessante. Un puzzle però dove non combaciano alcuni pezzi, oppure sono proprio inesistenti.
Never Let Go e quella strana somiglianza con The Deliverance
Una madre sola si ritrova a crescere i suoi tre figli, tra problemi adolescenziali, debiti accumultati e un’assistente sociale in attesa sulla porta. Un’equilibrio precario, messo a dura prova anche dai problemi della protagonista tra alcool, droga e un passato tormentato dalle faide famigliari.
La maternità la mette davanti a scelte difficile, i suoi vizi, la sua impulsività o la vita insieme ai loro figli. Da tempo cerca di trovare un’ equilibrio stabile, dal trasferimento in un’altra città fino alla riconciliazione con la madre. Ma qualcosa la tormenta, si insidia piano piano nelle sue debolezze e si fa padrone di lei, prendendo pian piano anche l’anima dei suoi figli.
Anche qui torna il separatismo razziale, le lotte familiari, la maternità e anche lo stesso attore. Infatti lo stesso bambino indemoniato in The Deliverance è lo stesso attore di Never Let Go, Anthony B. Jenkins, che guarda caso interpreta lo stesso ruolo, pochi passaggi cambiano, ma le dinamiche sono sempre le stesse.
Eccetto che il finale del secondo è svolto più decentemente, da effetti scabrosi e reali portando tutto all’apice del rarefatto.
Nel contesto un buon film che non pecca sul lato tecnico ma su quello narrativo. Da apprezzare l’entità metaforica della struttura, anche se un horror, deve rimanere tale, alle piccole esigenze richieste. Brivido, paura e tensione. Di film drammatici e sul senso della vita ce ne sono a bizzeffe, e tale retoriche perfino nel genere splatter, anche no.
L’originalità è nascosta dietro tante cose non dette, probabile per mancanza di tempo, data la lunga descrizione iniziale. Ma comunque il processo è buono e il prodotto pecca di alcune imperfezioni evitabili, ma nel contesto la suspense e la sorpresa smorzano l’agonia iniziale, dando vita a un film piacevole e intrigante. Da vedere ma non con troppe aspettative.