Molto forte, incredibilmente vicino è una storia di simpatia, (dal greco ‘sympatheia’, stesso dolore) la storia di un lutto condiviso, anzi del lutto condiviso per antonomasia. La tragedia culturalmente più conosciuta e considerata – almeno dagli occidentali – come la più grave della storia contemporanea, la caduta delle torri gemelle, viene raccontata in questo film che si svincola dalla prevedibile narrativa strappalacrime (comprensibilmente) offrendoci un’alternativa altrettanto toccante ma geniale, audace, acuta ed ingenua perchè narrata attraverso gli occhi di un ragazzino.
Oskar (Thomas Horn) è un bambino di nove anni estremamente curioso ed intelligente, con sospetta sindrome di Asperger, a cui risulta difficile parlare ed aprirsi con gli sconosciuti (nomen omen, dato che il suo cognome è Schell, che assomiglia a ‘shell’, ovvero ‘conchiglia’ in italiano).
L’unica persona con cui Oskar riesce ad avere un rapporto completamente confidenziale e disinvolto è il padre Thomas (interpretato da Tom Hanks nel film). Quest’ultimo condivide con il figlio un’innato amore per la scoperta, per l’esplorazione e la scienza e propone al figlio sempre nuove avventure e nuovi enigmi da risolvere, come la ricerca del leggendario sesto distretto di New York. Il vero obiettivo di Thomas è aiutare Oskar a superare quelle difficoltà sociali di cui il bambino è affetto, tipo parlare con gli sconosciuti o andare sull’altalena.
Il fatidico giorno dell’11 settembre 2001 (“il giorno più brutto” come lo chiamerà Oskar) il bambino rincasa prima e trova i messaggi del padre – bloccato in una delle torri gemelle – sulla segreteria telefonica e ascolta quelle che sono le sue ultime parole: Oskar apprende così della morte della persona più importante della sua vita, crollando in uno stato assoluto di letargo emotivo e solitudine rispetto al resto del mondo, madre compresa.
Un anno più tardi, il protagonista rientra in camera da letto dei genitori per la prima volta dopo il lutto, rovistando tra le varie cose del padre. Accidentalmente, Oskar fa cadere un vaso nel quale era contenuta una chiave.
Il ragazzino interpreta quell’oggetto come l’indizio per l’ultima sfida esplorativa propostagli dal padre, l’ultimo rompicapo da risolvere: “Come ogni cosa, se vorrai crederci, troverai i motivi per farlo” echeggia un insegnamento del padre. Così, Oskar affronta un viaggio per New York alla ricerca della serratura corrispondente, con pochi strumenti: un indizio, la parola “Black” – scritta sul retro della busta in cui la chiave era conservata – e un ritaglio di giornale sul quale il padre aveva cerchiato le parole “not stop looking” (“non smettere di cercare”), una macchina fotografica appartenente al bisnonno.
Molto forte, incredibilmente vicino è un caleidoscopio di umanità
Molto forte, incredibilmente vicino presenta un arco narrativo fortemente destrutturato, caratterizzato da continui salti all’indietro, sia rappresentati da veri e propri flashback sia vissuti attraverso i ricordi di Oskar. Il viaggio del bambino diventa, come spesso accade, un percorso metaforico dell’anima, attraverso il quale il film ci regala un processo di crescita e di formazione di un ragazzino che si trova improvvisamente da solo alla ricerca di un tesoro (una serratura) il cui ritrovamento appare subito un’utopia. Oskar va alla ricerca di tutti i Black di New York -472 anime in totale – catalogando la sua missione e i suoi obiettivi con la meticolosità del burocrate più navigato.
Attraverso il suo cammino verso l’ignoto (e sopratutto verso degli sconosciuti), Oskar riesce a superare le proprie paure, scoprendo e mostrando allo spettatore un ricchissimo spettro di emozioni, tra cui un’innata sensibilità ed empatia che lo porta a conoscere tantissime nuove persone (“tutti vogliono sentire la mia storia e tutti hanno una storia da raccontarmi”): Molto forte, incredibilmente vicino è un mosaico di umanità, con tasselli di persone tutte estremamente diverse tra loro, unite da un unico grande comune denominatore: il loro essere umani in modo misterioso e affascinantemente autentico .
Il legame che i Black, tutti potenziali custodi dell’agognata serratura, stabiliscono con Oskar – a volte duraturo, a volte fugace, altre inconsistente – evidenzia quanto mai il mistero della vita – e sopratutto della morte – a cui il bambino cerca disperatamente di dare un senso, e con lui la madre (Oskar, tutto questo non ha senso e non potrà mai averlo! Non avrà mai senso”); il protagonista cerca in tutti i modi la soluzione all’arcano proposto dal papà, per allungare il suo tempo con il padre (“i miei otto minuti con lui”).
Molto forte, incredibilmente vicino – il nome del film deriva dal libro a cui si ispira, e il libro si chiama come l’album fotografico creato da Oskar e raffigurante ad uno ad uno, tutti i 472 ‘Black’ – diventa un saggio sull’umanità e soprattutto una lezione preziosissima sul valore della vita e del superamento del dolore attraverso la sua condivisione.
Oskar, spalle al muro è costretto ad aprirsi con persone con le quali non l’aveva mai fatto: a partire dalla madre (una Sandra Bullock impeccabile, per la quale il ruolo sembra cucito addosso) una donna emotivamente afflitta dallo struggente lutto e dal difficile rapporto con il figlio con cui riuscirà a cucire un rapporto del tutto nuovo conquistandone finalmente la fiducia, un tempo appannaggio esclusivo del papà.
Quello con la madre, come detto, non è l’unico rapporto che instaura Oskar, una volta uscito dal guscio: la sfida irrealizzabile ( ma ”Se le cose fossero facili da trovare, non varebbe la pena trovarle”) in una New York dedalica lo porta a conoscere persone del tutto diverse – un collezionista di monete povero, un uomo che ama gli abbracci, un padrone di casa scorbutico una donna addolorata da un divorzio – e il ragazzo diventa la piccola finestra sul mondo dalla quale spiamo le loro vite per pochi istanti o di più.
La morte del papà si rivela per Oskar l’opportunità di ritrovare un nuovo parente – il nonno, un Max Van Sydow da premio Oscar – che, mosso dai sensi di colpa per aver abbandonato il figlio, ormai perduto, quand’era giovane, è sprofondato in un mutismo monastico ed ora tenta di riallacciare i rapporti con la famiglia aiutando il nipote con la ricerca.
Il nonno (la cui identità è sconosciuta a inizio film e coperta dal suo soprannome – “L’inquilino”) è la persona con la quale il protagonista supera ciò che avrebbe paura di fare -come attraversare un ponte o prendere la metropolitana – e condivide ciò che ha paura di dire. A lui, infatti, Oskar confessa dei messaggi della segreteria lasciatigli dal padre durante l’attentato, che ha tenuti nascosti persino -soprattutto! – alla madre.
Molto forte, incredibilmente vicino lascia un senso di speranza e vitalità sconfinate: la chiave ritrovata riunisce un padre con un figlio (ma non Oskar col suo), ma l’esperienza del ragazzo non rimane insoddisfatta, trovando in un epilogo insperato un ultimo emozionante contatto con il padre. Il viaggio d’esplorazione di Oskar finisce per ramificarsi attraverso la traccia che rimane impressa nelle vite di tutti coloro che l’hanno aiutato a condividere un dolore apparentemente così grande ed insormontabile sul quale, alla fine, Oskar e sua madre trovano perfino la forza di riderci su.