La Zona d’Interesse; Regia: Jonathan Glazer; Soggetto: dal romanzo di Martin Amis; Sceneggiatura: Jonathan Glazer; Fotografia: Łukasz Żal; Montaggio: Paul Watts; Musiche: Mica Levi; Scenografia: Chris Oddy; Costumi: Małgorzata Karpiuk; Cast: Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, Stephanie Petrowitz, Marie Rosa Tietjen, Lilli Falk, Wolfgang Lampl; Produzione: Extreme Emotions, A24, Film4 Productions, House Productions; Distribuzione: I Wonder Pictures; Paese di produzione: Regno Unito, Polonia, 2023; Durata: 105’
La Zona d’Interesse, la trama
Rudolf Höss e la sua famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città, tra gioie e problemi quotidiani: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro o combinano qualche marachella. C’è un dettaglio però. Accanto a loro, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore.
La Zona d’Interesse, la recensione
Lo schermo diventa nero, udiamo suoni in sottofondo di cui è difficile discernere la provenienza. Sembra l’incipit di 2001 Odissea nello Spazio, e invece quest’oscurità è il preludio a un film che si basa interamente sulla trovata dell’occultamento visivo. Rudolf e la sua famiglia vivono in una sorta di giardino dell’Eden, un paradiso terreste che tuttavia confina con un orribile inferno. C’è infatti un grande muro che separa la casa dei coniugi Höss (“la zona d’interesse” del titolo) da qualcos’altro: il campo di concentramento di Auschwitz.
La scelta di Jonathan Glazer è quella di mostrarci la spensierata quotidianità della coppia protagonista e dei loro figli, una famigliola che se vista dall’esterno può sembrare uguale a tante altre. Ed è proprio qui che qualcosa di terribile s’insinua tra le piaghe di ciò che è rappresentato sullo schermo: come si può vivere così tranquillamente ignorando tutto quel dolore?
Glazer ha scelto di adattare per il grande schermo l’omonimo romanzo di Martin Amis per raccontare una triste pagina di Storia, ma anche per operare una riflessione sul lato più macabro delle nostre coscienze. Dopo essere stato presentato a Cannes nel 2023, La Zona d’Interesse ha ottenuto diversi riconoscimenti e può vantare importanti estimatori.
Il lungometraggio, che è stato nominato agli Oscar in cinque categorie (ed è molto probabile che vinca nella categoria riservata alle pellicole internazionali), ha ricevuto la benedizione di Steven Spielberg, che l’ha definito il miglior film sull’Olocausto dai tempi del suo Schindler’s List: “Sta svolgendo un lavoro significativo nel sollevare la consapevolezza, specialmente riguardo alla banalità del male”.
La filmografia di Glazer è molto eterogenea nonostante sia formata da appena quattro film girati in ventitré anni. Dall’esordio Sexy Beast – L’ultimo colpo della Bestia (attualmente visibile su MUBI) fino a La Zona d’Interesse, il tono delle sue opere è cambiato molto e il suo formalismo registico ha subito un’evoluzione sempre più estrema.
La Zona d’Interesse ha lo stesso andamento compassato e ragionato di Under the Skin: nel film con Scarlett Johansson una modalità di racconto di quel tipo serviva a rappresentare l’umanità attraverso uno sguardo freddo e (letteralmente) alieno, e anche qui l’algido distacco con cui vengono mostrati gli eventi rappresenta lo stesso atteggiamento assuefatto adottato dai personaggi principali, interpretati da Christian Friedel e dall’apprezzatissima Sandra Hüller – candidata agli Oscar per la sua prova in un altro film di successo di questa stagione, Anatomia di una Caduta.
Gli orrori dell’Olocausto sono stati trattati dal cinema in vari modi. Spielberg li ha mostrati nel 1993 nel già citato Schindler’s List, con un giusto trasporto e un’ovvia vicinanza alle vittime dei campi di concentramento, mentre nel 2015 l’ungherese László Nemes con Il Figlio di Saul ha posto l’accento sull’impossibilità di processare e rappresentare quei momenti terribili, mostrandoli quindi solo fuori fuoco per tutto il film. Glazer riprende questo concetto e va oltre, confinando quel dolore impensabile (e quindi infilmabile) fuori campo. Coerentemente con l’approccio della famiglia protagonista, La Zona d’Interesse opera una sorta di rimozione. Non tutto può essere tuttavia rimosso, a livello inconscio e sensoriale.
Non è solo attraverso la vista che si può essere testimoni di quelle atrocità: anche con gli occhi coperti, rimane l’udito. Mentre nella casa degli Höss assistiamo a scene all’apparenza innocenti, come un compleanno festeggiato in famiglia o l’arrivo di ospiti, è possibile sentire in sottofondo dei suoni che ci suggeriscono cosa sta accadendo dall’altra parte del muro: urla strazianti, spari, l’arrivo dei treni carichi di ebrei che stanno giungendo al campo.
Questi rumori sono entrati a far parte della quotidianità degli Höss, la loro presenza in sottofondo è normalizzata e quindi addomesticata, ma non alle orecchie di chi arriva per la prima volta in quella casa, inclusi noi spettatori che veniamo destabilizzati e costretti ad attivare l’immaginazione per afferrare ciò che il guardo esclude.
Rudolf sembra non avere alcun dubbio o problema morale con il suo lavoro al campo di sterminio. Parla dell’efficienza delle camere a gas e del loro tasso di mortalità come un ingegnere disquisirebbe con distacco a proposito di un progetto qualsiasi. La macchina nazista si alimenta e funziona tramite quegli ingranaggi rappresentati dagli ufficiali, che si barricano dietro l’incrollabile fedeltà al proprio lavoro.
Il genocidio è l’obiettivo del Reich, eppure viene trattato quasi come un effetto collaterale le cui implicazioni morali sembrano non attraversare le menti dei colpevoli, se non in una singola scena in cui il corpo di Rudolf sembra ribellarsi alla mente del suo proprietario, ma solo per un fugace attimo prima che l’uomo si diriga verso i meandri più oscuri della Storia. Hedwig, che si occupa della casa insieme alle domestiche al suo servizio, viene ironicamente chiamata dal marito “la regina di Auschwitz”. I due coniugi hanno lavorato tanto per ottenere quell’abitazione in Polonia riuscendo a trasformarla nel loro spazio vitale, un angolo di paradiso in cui il curatissimo giardino è ricolmo di fiori di tutti i tipi.
Quando Rudolf ottiene una promozione ed è costretto a trasferirsi, Hedwig esprime la (per noi paradossale) volontà di non lasciare Auschwitz, e i due si confrontano come qualsiasi altra coppia farebbe in occasione di un cambiamento del genere. Attraverso uno stile realista e quasi da documentario, intervallato solo da qualche sequenza onirica e reso talvolta inquietante dalle musiche di Mica Levi, ci accorgiamo che quella famiglia forse non è così lontana da noi.
Glazer ci mostra che un ufficiale nazista può essere un padre premuroso, avere sogni molto semplici e prendere a cuore persino un cavallo. Ciò è raggelante. La Zona d’Interesse provoca la stessa strana sensazione che si sperimenta nel guardare la foto di un Hitler sorridente che gioca col suo cane: dietro all’incarnazione del Male per eccellenza, dietro al mostro, ci sembra di scorgere un barlume di umanità. Questa constatazione genera un tipo di orrore molto diverso da quello solitamente evocato da altre pellicole dedicate all’Olocausto, tragedia che tramite un beffardo foreshadowing finale viene consegnata alla Storia.
Il film di Glazer insinua che quanto accaduto possa ripetersi in un silenzio assoluto e, per questo, assordante. Nonostante sia ambientato in un preciso periodo storico, La Zona d’Interesse porta ad interrogarsi sull’oggi e su noi stessi: rischiamo che i nostri comfort ci accechino di fronte alla morte e alle iniquità presenti nel mondo? Davanti agli attuali conflitti ci costringeremo a non voltare lo sguardo o anche noi lasceremo diventare quelle grida soltanto un costante rumore di fondo a cui abituarsi?