La meravigliosa storia di Henry Sugar (The Wonderful Story of Henry Sugar) è un film Netflix del 2023 di Wes Anderson (I Tenembaum, Grand Budapest Hotel, Asteroid City) con un cast limitato a pochi attori, circa 15, che si avvincendano in poco più di mezz’ora di film, ma con alcuni di questi di assoluto livello: Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley, Ralph Fiennes e Dev Patel.
Anderson ci racconta, in maniera esasperata, un modo di fare cinema moderno e in cui si racconta una storia, meccanicamente recitata, in una suggestiva cornice tra il teatrale e il dietro le quinte di un set cinematografico.
Insomma come nasce una storia cinematografica? Wes Anderson ce la racconta senza filtri, come se fosse ci volesse guidare durante il film ad uno spettacolo in diretta, con lo sguardo degli attori in scena assiduamente fisso in camera, ovunque essa si trovi. Questi, in questo breve lungometraggio, ci raccontano passo per passo e meccanicamente tutto ciò che fanno, infatti la storia di Henry Sugar sembra risultare solo un brillante espediente per raccontare un modo di fare cinema, più che raccontare una vera e propria storia in se.
La meravigliosa storia di Henry Sugar. Un folle esperimento registico
Il film fin dalle prime battute ci fa capire che ci troviamo nel mondo di Wes Anderson: un mondo post-apocalittico, con colori molto caldi e sgargianti dai vestiti che indossano i protagonisti alla scenografia da cui essi sono circondati. Roald Dahl (Ralph Fiennes), l’autore dei racconti da cui è ispirata la storia di Anderson, ci racconta all’interno di una redazione giornalistica la storia di Henry Sugar (Benedict Cumberbatch).
Ci viene presentato Henry, ma non nella maniera che ci aspetteremmo: scapolo, ricco, troppo sicuro di sé, avido, vanitoso, spendaccione, nullafacente, ma tutto sommato un uomo né cattivo, né buono, insomma un insieme di caratteristiche non proprio accattivanti per presentarci un personaggio.
La trama del film la potremmo riassumere in pochissime righe: Henry Sugar è un giocatore d’azzardo, che viene a conoscenza di un uomo proveniente dall’India, Imdad Khan (Ben Kingsley) che, grazie alla meditazione yoga, riesce a vedere senza usare gli occhi. Ad essere interessato alla vicenda, c’è il Dott. Z.Z. Chatterjee (Dev Patel) il quale tra fascino per il personaggio e perplessità scientifica, indaga se tutto ciò sia realmente possibile.
Rendendosi conto dei benefici che potrebbe trarne per arricchirsi, Henry Sugar decenni dopo in piena follia creativa, decide di esercitarsi maniacalmente per acquisire la stessa abilità, al fine di poter sbancare il casinò e arricchirsi, sebbene la vicenda nasconda scopi che vanno ben oltre il solo egoistico guadagno. Questa storia arriverà decenni dopo nelle mani di Roald Dahl, il quale deciderà poi di raccontarcela nell’originale maniera in cui Anderson ha deciso.
L’originalità dell’opera sta nel linguaggio metacinematografico che Anderson decide di usare per raccontarci questa storia. Innanzitutto tutto ciò ci viene narrato a favore di telecamera, la quale si sposta dappertutto: davanti all’attore, in alto, a destra, a sinistra, in basso; oltre a questo vengono usati diversi piani di inquadratura, utilizzando tutti i più diversi tipi di campo, dal lunghissimo al lungo, fino ad arrivare al medio e totale, anche nel giro di pochi minuti. Anche il tipo di piano cinematografico viene costantemente alternato nella medesima maniera: da quello a figura intera, al primo piano, fino ad arrivare al primissimo piano.
Altra particolarità del film è la frenesia e l’impersonalità con cui ci viene narrata la storia: infatti se possiamo comprendere che Roald Dahl ci racconti la storia in terza persona, lui è narrativamente fuori da essa, ma perché alcuni dei protagonisti interni alla vicenda parlano nella stessa maniera? Lo stesso Henry Sugar, pur parlando di sé stesso, ne parla in terza persona, come se colui di cui parlasse fosse in realtà un estraneo, esasperando la distanza tra chi recita e il personaggio da lui interpretato.
Altrettanto interessante è la scelta di una rappresentazione che si sviluppa su diversi livelli: teatrale, dato che gli attori si spostano fisicamente da una scenografia all’altra, passando da uno scenario all’altro in pochissimi istanti, nel cinema invece si sarebbe utilizzato un totale cambio di inquadratura, uno stacco che ci avrebbe portato in un altro momento della storia. Wes Anderson sceglie di utilizzare spesso il piano-sequenza per fare in modo che tutto avvenga all’interno della scena girata, persino il lavoro dietro le quinte ci viene rappresentato davanti agli occhi, come se volesse mostrarci in presa diretta il frenetico mondo dietro un film.
Mentre la storia rapida va avanti, ci viene mostrato il mondo che solitamente sta dietro e non si vede: trucco, cambio vestiti, interventi di un addetto in scena nello spostare fisicamente l’attore da una posizione all’altra, o l’attrezzista che inserisce oggetti di scena mentre l’attore in scena sta raccontando meccanicamente ciò che sta accadendo in scena, o anche il raccontare senza filtri e senza effetti speciali una corsa in macchina o una passeggiata, come se fosse tutto realizzato all’interno di uno studio cinematografico e la realtà al di fuori di essa non esistesse, ed il regista volesse rinchiuderci claustrofobicamente in quel mondo.
L’ambiente esterno infatti non tocca minimamente il film. Si tratta come di un grande spettacolo interno tutto racchiuso in un teatro, più vicino ad una rappresentazione di uno spettacolo di marionette e pupazzi che ad un’opera effettivamente cinematografica.
Ma anche il linguaggio cinematografico entra ovviamente e lo fa utilizzando tipiche tecniche del cinema: come il carrello per certi tipi di inquadrature o sui vari piani usati per raccontarci la vicenda, dal lunghissimo al primissimo piano, o eventi che accadono fuori scena e di cui ci viene riportato solo il risultato, o l’interruzione improvvisa del piano sequenza per passare a un’altra scena, tutte tecniche evidentemente che fanno parte del mondo della settima arte.
Oltre a questo, Anderson utilizza la tecnica del fuoricampo, con una telecamera fissa sul protagonista che compie un’azione e i cui risultati noi non possiamo visivamente vederli, ma che acusticamente possiamo percepire: rumori, urla, trambusto e confusione, tutto in una scena che, se fosse stata puramente cinematografica, avrebbe potuto essere mostrata con un controcampo per capire cosa realmente fosse accaduto in scena.
Folle l’uso anche della sceneggiatura, letta a favore di telecamera con tutti i “dissi” e “chiesi” espressi chiaramente dall’attore in questione (solitamente invece omessi al momento delle riprese), una tecnica volutamente straniante da parte di Anderson, come se in realtà ci trovassimo in una recita dietro le quinte del film da parte degli attori prima della scena definitiva.
Non solo però ci vengono raccontati i sottintesi (che il pubblico giustamente considererebbe scontati e superflui), ma ci vengono narrati anche gli stati d’animo dei protagonisti nel pronunciare quella battuta, sostituendo quindi la recitazione effettiva, ad una semplice pappardella da ripetere davanti alla telecamera senza la minima espressività o intensità emotiva da parte dell’attore in scena, che invece rimane freddo e distaccato.
Quindi se un personaggio è infastidito, indispettito o arrabbiato, niente di tutto ciò ci viene mostrato in scena, semplicemente ci viene detto a parole.
Altro spunto interessante a livello tecnico del film è che la sceneggiatura non va di pari passo sempre con i cambi di scena, i quali spesso arrivano poco dopo che la storia ci viene raccontata dai protagonisti, i quali imperterriti e freddi vanno comunque avanti senza problemi a narrare questa storia vera, ma con nomi falsi, raccontandoci anche il dietro le quinte che ci parla di come quella storia sia arrivata a Dahl e l’uso che poi lo scrittore ha voluto farne.
Altro aspetto particolare del film è il fatto che essendoci pochi attori e comparse in tutto il film, gli attori principali facciano i salti mortali per rimanere nella parte: si cambiano infatti i costumi in diretta, escono dall’inquadratura per cambiarsi un attimo, recitano parti da donne vestendosi come esse (come accadeva nel teatro shakespeariano dove alle donne del tempo non era permesso recitare), ed interpretano personaggi diversi all’interno dello stesso film, rompendo quindi il rapporto di totale immedesimazione tra l’attore e il personaggio che interpretano.
Ma come abbiamo capito del cinema classico in questo folle metafilm c’è ben poco, tutto infatti viene volutamente esasperato per renderlo grottesco.
La meravigliosa storia di Henry Sugar: Conclusioni
La meravigliosa storia di Henry Sugar è un film oggettivamente particolare e strano. D’altronde stiamo parlando di un autore cinematografico come Wes Anderson, il quale negli ultimi 25 anni ha certamente spesso realizzato film ben poco convenzionali rispetto al mondo del cinema circostante volendo esplorare, nelle sue spesso folli storie, il linguaggio cinematografico nella sua totalità, prendendo per esempio nei suoi film attori famosissimi e sulla cresta dell’onda, come anche in questo caso, sempre però al minimo sindacale, essendo spesso film a basso costo.
E se manca volutamente il pathos di una storia potenzialmente interessante, per gli amanti del cinema alternativo si tratta di un interessante esperimento di metacinema in cui vedere cosa c’è effettivamente dietro il dorato mondo cinematografico e svelarne le ipocrisie e le difficoltà di un mondo certamente magico ai nostri occhi, ma che in realtà nasconde un formicaio in costante fermento. E La meravigliosa storia di Henry Sugar ci svela un poco di quel caotico sottobosco che si chiama Cinema.