Emilia Clarke, la bellissima ed espressiva attrice diventata nota per la sua interpretazione ne Il Trono di Spade, (la cui ultima stagione, lo ricordiamo, sarà trasmessa da Sky Atlantics a partire dal 15 aprile) nonché per il ruolo di Louisa Clark in Io prima di te e di Qi’ra in Solo – A Star Wars Story, ha rivelato uno sconvolgente e inaspettato aspetto della sua vita.
Conosciamo tutti l’impegno di Emilia Clarke per le cause benefiche, il suo contributo attivo prestato a serate filantropiche e ai progetti umanitari promossi da Omaze.
Ricordiamo che nell’asta organizzata da Sean Penn per raccogliere fondi per Haiti, Emilia Clarke ha messo in palio la visione di un episodio di Game Of Thrones in sua compagnia e che Brad Pitt ha perso l’asta nonostante avesse offerto ben 120 mila dollari, scalzato da un anonimo donatore che ne ha invece offerti 160 mila per potersi aggiudicare l’ambito premio! Ma stavolta, l’operazione benefica che ci ha presentato la splendida attrice, ha una premessa molto diversa.
Emilia Clarke, infatti, ha scelto il primo giorno di primavera per annunciare il lancio di una speciale raccolta benefica che ha trascorso anni ad organizzare e, senza anticipare nulla, ha rimandato ad un link esplicativo dei dettagli dell’iniziativa e al sito del periodico americano New Yorker per far conoscere al mondo l’inedito racconto che ha affidato alle rotative del giornale.
Andiamo per gradi: l’organizzazione benefica creata e fondata da Emilia Clarke prende il nome di SameYou.
Il suo supporto alle persone che subiscono danni cerebrali, perché possano avere accesso alle giuste cure e alle forme riabilitative esistenti, nasce dal fatto che…lei stessa ha vissuto una simile esperienza sulla sua pelle. Non una, ma ben due volte! Nella lettera pubblicata nella sezione “Personal History” del New Yorker, Emilia Clarke ha raccontato di aver subito due operazioni molto delicate al cervello conseguenti ad altrettanti aneurismi. Ho tradotto l’intero articolo per non perdere neanche una singola sfumatura delle sue parole, la bellissima attrice, infatti, oltre alle già note doti, è dotata di un talento naturale per la scrittura ed ha messo nero su bianco la sua storia con estrema maestria narrativa.
Emilia Clarke racconta:
‘Proprio quando tutti i miei sogni d’infanzia sembravano essersi realizzati, ho quasi perso la testa e la mia vita. Non ho mai raccontato questa storia pubblicamente, ma adesso è arrivato il momento di farlo.
Era l’inizio del 2011. Avevo appena finito di girare la prima stagione di Game Of Thrones, una nuova serie della HBO basata sui romanzi Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin. Con quasi nessuna esperienza professionale alle spalle, mi era stato dato il ruolo di Daenerys Targaryen, anche conosciuta come Khaleesi del Grande Mare d’erba, Signora di Roccia del Drago, Distruttrice di Catene, Madre dei Draghi. In quanto giovane principessa, Daenerys è venduta in matrimonio ad un muscoloso signore della guerra Dothraki, chiamato Khal Drogo. E’ una storia lunga – lunga otto stagioni – ma tanto basta per dire che cresce in statura e in forza. Diventa una figura di potere e di controllo. In breve, giovani ragazze hanno iniziato ad indossare parrucche color platino e vestiti svolazzanti per essere Daenerys Targaryen per Halloween.
I creatori dello show, David Benioff e D. B. Weiss, hanno detto che il mio personaggio è una fusione tra Napoleone, Giovanna D’Arco e Lawrence d’Arabia. E ancora, nelle settimane successive al termine delle riprese della prima stagione, nonostante l’incombente eccitazione di una campagna pubblicitaria e della première della serie, sentivo con difficoltà quello spirito di conquista. Ero terrorizzata. Terrorizzata dall’attenzione, terrorizzata da un business che comprendevo a fatica, terrorizzata nel tentare di non deludere le aspettative che i creatori del “Trono” avevano riposto in me. Mi sentivo, in ogni modo, esposta. Nel primissimo episodio, appaio nuda, e, dalla prima conferenza stampa in poi, mi sono sentita fare sempre la stessa domanda: molteplici variazioni di “Interpreti una donna così forte, e comunque ti levi i vestiti. Perché?” Nella mia testa, avrei risposto “Quanti uomini devo uccidere per dare prova di me?”.
Per alleggerire lo stress, mi allenavo con un personal trainer. Ero un’attrice televisiva ora, dopo tutto, e questo è quello che fanno gli attori. Ci alleniamo. La mattina dell’11 febbraio 2011, mi stavo vestendo nello spogliatoio di una palestra di Crouch End, nel nord di Londra, quando ho iniziato ad avvertire un brutto mal di testa. Ero talmente affaticata da riuscire a stento a mettere le scarpe. Quando ho iniziato l’allenamento, ho dovuto forzarmi a fare i primi esercizi.
Il mio allenatore mi ha fatto assumere la posizione del plank, e mi ho immediatamente sentito come se una fascia elastica mi stesse stringendo il cervello. Ho cercato di ignorare il dolore e sono andata avanti, ma non ci riuscivo. Ho detto di aver bisogno di una pausa. In qualche modo, quasi trascinandomi, ho raggiunto lo spogliatoio. Sono andata in bagno, sono caduta in ginocchio, e ho continuato a sentirmi tremendamente male. Intanto, le fitte di dolore, come pugnalate, il dolore costrittivo, stavano peggiorando. Ad un certo punto, ho realizzato cosa mi stava accadendo: il mio cervello era danneggiato.
Per alcuni istanti, ho cercato di scacciare dolore e nausea. Mi dicevo “Non rimarrò paralizzata”. Muovevo le dita delle mani e dei piedi per assicurarmene. Per mantenere la memoria attiva, cercavo di ricordare, tra le altre cose, alcune battute di Game Of Thrones.
Ho sentito una voce femminile venire dal bagno accanto che mi chiedeva se stessi bene. No, non stavo bene. E’ accorsa in mio aiuto e mi ha girata su un fianco, nella posizione di recupero. A quel punto tutto è diventato, in un attimo, assordante e sfocato. Ricordo il suono di una sirena, un’ambulanza; sentivo voci nuove, qualcuno dicendo che le mie pulsazioni erano deboli. Vomitavo bile. Qualcuno ha trovato il mio cellulare, ha chiamato i miei genitori, che vivono nella contea di Oxford, e gli ha detto che mi trovavo al pronto soccorso del Whittington Hospital.
Una nebbia di incoscienza si era impadronita di me. Dall’ambulanza, sono stata trasferita su una barella in un corridoio pregno di odore di disinfettante e del rumore delle persone ammalate. Poiché nessuno sapeva cosa non andasse in me, i dottori e le infermiere non potevano darmi alcun farmaco per sedare il dolore.
Finalmente, mi hanno mandata a fare una risonanza magnetica. La diagnosi fu tanto rapida quanto infausta: una emorragia subaracnoidea, un ictus causato dal sanguinamento all’interno dello spazio che circonda il cervello. Avevo avuto un aneurisma, la rottura di un’arteria. Come ho appreso dopo, circa un terzo di pazienti con emorragia subaracnoidea muoiono all’istante oppure poco dopo. Per i pazienti che sopravvivono, sono necessarie cure urgenti per sigillare l’aneurisma, poiché c’è alto rischio di un secondo, spesso fatale sanguinamento. Se fossi riuscita a sopravvivere ed evitare tremendi deficit cerebrali, avrei dovuto sottopormi ad un intervento d’urgenza. E, anche in quel caso, non c’erano garanzie.
Sono stata trasportata in ambulanza al National Hospital di Neurologia e Neurochirurgia, un bellissimo edificio vittoriano di mattoni rossi, al centro di Londra. Era notte. Mia madre dormiva nel mio reparto, accasciata su una sedia, poiché continuavo a svegliarmi e a riaddormentarmi, in uno stato di intontimento farmacologico, fitte di dolore e incubi persistenti.
Ricordo che mi è stato detto di firmare una liberatoria per l’operazione. Operazione al cervello? Ero nel bel mezzo della mia pienissima vita – non avevo tempo per un’operazione al cervello. Ma, infine, mi sono decisa a formare. E poi ho perso conoscenza. Per le successive tre ore, i chirurghi mi hanno riparato il cervello. Non sarebbe stata la mia ultima operazione, e neanche la peggiore. Avevo 24 anni.
Sono cresciuta ad Oxford e ho pensato raramente alla mia salute. Tutto quello a cui pensavo era recitare. Mio padre era un progettista del suono. Lavorava sulla produzione di West Side Story e Chicago, nel West End. Mia madre era, ed è, una donna d’affari, il vice-presidente marketing di una società specializzata in consulenza direzionale. Non eravamo ricchi, ma mio fratello ed io abbiamo frequentato scuole private. I nostri genitori, che volevano tutto per noi, hanno faticato per pagare le bollette.
Non ho chiara memoria di quando ho deciso di diventare un’attrice. Mi hanno detto che avevo circa 3 o 4 anni. Quando andavo a teatro con mio padre, venivo iniziata alla vita del backstage: i pettegolezzi, i costumi, tutta la confusione sussurrata nell’oscurità. Quando avevo 3 anni, mio padre mi portò a vedere una produzione di Show Boat. Nonostante fossi una tipica chiassosa e vivace, mi sono seduta rapita e silenziosa tra il pubblico per oltre due ore. Quando è calato il sipario, mi sono alzata in piedi sul sedile ed ho applaudito con veemenza con le braccia alte sulla testa.
Ero presa. A casa, guardavo la VHS di My Fair Lady così tante volte da romperla. Penso di aver preso la storia del Pigmalione come un segno di come e con abbastanza prove ed un buon regista, sia possibile diventare qualcun altro. Non penso che mio padre fosse contento quando ho annunciato di voler diventare un’attrice. Conosceva fin troppi attori e, per lui, erano nevrotici e disoccupati.
La mia scuola, ad Oxford, la Squirrel School, era idilliaca, ordinata e deliziosa. Quando avevo 5 anni, ebbi il ruolo principale in una rappresentazione. Quando arrivò il momento di salire sul palco e declamare le mie battute, però, dimenticai tutto. Rimasi lì, al centro del palco, immobile, affrontando la cosa. Nelle prime file, gli insegnanti cercavano di aiutarmi mimandomi le battute con la bocca. Ma sono rimasta lì, senza paura, con molta calma. In uno stato mentale che mi ha accompagnato durante tutta la mia carriera. Oggi, posso essere su un tappeto rosso con migliaia di macchine fotografiche che scattano e restare impassibile. Ovviamente, mettetemi ad una cena con sei persone e lì è un altro paio di maniche.
Col tempo, sono diventata più brava a recitare. Ricordavo anche le mie battute. Ma non sono mai stata un prodigio. Quando avevo 10 anni, mio padre mi portò ad un’audizione nel West End per una produzione di Neil Simon: The Goodbye Girl. Quando sono entrata, mi sono accorta che tutte le bambine provavano canzoni di Cats. La sola cosa che avevo preparato io, era una canzone folk inglese: Donkey Riding. Dopo avermi ascoltato con pazienza, qualcuno mi chiese “Che ne dici di qualcosa di più…moderno?” Cantai Wannabe delle Spice Girls. Mio padre si coprì il viso con le mani. Non mi diedero la parte, e penso che sia stata una benedizione. Mio padre mi disse “Sarebbe stato difficile leggere qualche brutta critica su di te sul giornale”.
Ma ho continuato. Nelle produzioni scolastiche, ho interpretato Anita di West Side Story, Abigail di The Crucible, una delle streghe del Macbeth, Viola in Twelfth Night. Dopo le superiori, mi sono presa un anno sabbatico durante il quale ho lavorato come cameriera e sono andata, zaino in spalla, in Asia. Dopo ho iniziato i corsi al Drama Centre di Londra per ottenere il mio bachelorato come attrice emergente, studiavamo tutto da The Cherry Orchard a The Wire. Non ho mai ottenuto le parti principali. Quelle andavano alle ragazze alte, snelle, incredibilmente bionde. Fui scritturata come madre ebrea in Awake and Sing! Dovreste sentire il mio accento del Bronx.
Dopo la laurea, ho fatto una promessa a me stessa: per un anno, avrei accettato solo ruoli impegnativi. Mi guadagnavo l’affitto lavorando in un pub, un call center, e ad un museo del soprannaturale dicendo alle persone “i bagni sono sulla destra”. Secondi lunghi come anni. Ma ero determinata: un anno senza pessime produzioni.
Nella primavera del 2010, il mio agente mi chiamò per dirmi che stavano tenendo delle audizioni a Londra per una nuova serie HBO. Il pilot di Game Of Thrones era stato perfezionato e volevano rivedere, tra gli altri ruoli, quello di Daenerys. La parte richiedeva una donna del mistero ultraterrena e dai capelli biondo platino. Io sono un’inglese bassa, mora e formosa. Pazienza. Per prepararmi, imparai queste battute strane per due scene, una del quarto episodio, in cui mio fratello è sul punto di colpirmi, ed una del decimo episodio, in cui cammino attraverso il fuoco e sopravvivo, illesa.
In quei giorni, pensavo a me stessa come ad una ragazza in salute. Qualche volta mi sentivo la testa leggera, perché ho spesso la pressione bassa e basse pulsazioni. Una volta ogni tanto, mi capitava di svenire. Quando avevo 14 anni, ebbi un’emicrania che mi tenne a letto per un paio di giorni, e a scuola di recitazione mi è capitato di aver perso i sensi. Ma era tutto gestibile, parte dello stress di essere un’attrice e della vita in genere. Ora penso che potrebbero essere state avvisaglie di quello che mi sarebbe accaduto.
Feci l’audizione per Game Of Thrones in un piccolo studio di Soho. Quattro giorni dopo, ebbi una telefonata. L’audizione non era stata un disastro. Mi dissero di volare a Los Angeles di lì a tre settimane, per farmi provinare da Benioff e Weiss ed i dirigenti del canale. Iniziai ad allenarmi duramente per prepararmi. Mi fecero volare in business class. Rubai tutto il tea gratis dalla lounge. All’audizione, cercai di evitare di guardarmi intorno, quando vidi un altro attore, alto, biondo, magro e bellissimo, che mi passava accanto. Interpretai due scene in un auditorium scuro, per un pubblico di produttori e dirigenti. Quando finì, me ne uscii con “Posso fare altro?”
David Benioff mi disse “Puoi eseguire una danza” senza nessuna intenzione di deluderlo, feci la danza del pollo funky e il robot. A ripensarci, ho rischiato di rovinare tutto. Non sono esattamente una grande ballerina.
Mentre lasciavo l’auditorium, corsero verso di me e mi dissero: “Congratulazioni Principessa!” Avevo avuto la parte.
Non riuscivo a respirare. Tornai in hotel, e alcune persone mi invitarono ad una festa sul tetto. “Sto bene cosi!” risposi. Invece, andai in camera mia, mangiai Oreo, guardai Friends e chiamai tutti quelli che conoscevo.
La prima operazione era quella che si dice una “minimamente invasiva“, nel senso che non mi aprirono la testa. Invece, usando una tecnica chiamata spirale endovascolare, il chirurgo introdusse un cavo in una delle arterie femorali, nell’inguine; il cavo salì intorno al cuore, fino al cervello, dove sigillarono l’aneurisma.
L’operazione durò 3 ore. Quando mi svegliai, il dolore era insopportabile. Non avevo idea di dove fossi. Il mio campo visivo era ristretto. C’era un tubo nella mia gola ed ero assettata e nauseata. Mi spostarono dalla terapia intensiva dopo quattro giorni e mi dissero che il maggior ostacolo era superare le due settimane. Se ce l’avessi fatta per quel periodo con complicazioni minime, le mie possibilità di una buona guarigione sarebbero state alte.
Una notte, dopo aver superato quell’obiettivo cruciale, un’infermiera mi svegliò e, come parte di una serie di esercizi cognitivi, mi chiese, “Come ti chiami?” Il mio nome completo è Emilia Isobel Euphemia Rose Clarke. Ma non riuscivo a ricordarlo. Invece, mi uscirono dalla bocca parole insensate e mi pervase un panico incontrollato. Non avevo mai avuto così tanta paura, un simile senso di sventura. Pensavo alla mia vita futura, e non mi sembrava valesse più la pena di essere vissuta. Io sono un’attrice; ho bisogno di ricordare le mie battute e non riuscivo a ricorda il mio nome.
Soffrivo di una condizione chiamata afasia, una conseguenza del trama che aveva colpito il cervello. Anche se mormoravo cose insensate, mia madre mi faceva la gentilezza di ignorarlo e di cercare di convincermi che ero perfettamente lucida. Ma sapevo di essere vacillante. Nei miei momenti peggiori, volevo che staccassero la spina. Chiesi allo staff medico di lasciarmi morire. Il mio lavoro, tutto il sogno della mia vita, era centrato sul linguaggio, sulla comunicazione. Senza, ero perduta.
Mi rimandarono in terapia intensiva e, dopo circa una settimana, l’afasia passò. Riuscivo a parlare. Sapevo di nuovo come mi chiamavo, tutti e cinque i nomi. Ma ero anche conscia delle persone nei letti accanto al mio, che non avrebbero lasciato la terapia intensiva. Mi ricordavo continuamente quanto fossi fortunata. Un mese dopo, lasciai l’ospedale, desiderando di fare un bagno e di respirare aria fresca. Avevo interviste da fare e, in poche settimane, avrei dovuto tornare sul set di Game Of Thrones.
Tornai alla mia vita, ma, mentre ero in ospedale, mi avevano detto che avevo un piccolo aneurisma dall’altro lato del mio cervello, e che sarebbe potuto “scoppiare” in qualsiasi momento. I dottori dicevano, però, che era piccolo e che era possibile sarebbe rimasto dormiente ed innocuo indefinitamente. Avrei solo dovuto tenerlo d’occhio. La ripresa fu quasi istantanea. C’era ancora il dolore con cui lottare, e la morfina a tenerlo a bada. Dissi ai miei capi del “Trono” della mia situazione, ma non volevo che diventasse di dominio pubblico. Show must go on!
Anche prima di iniziare le riprese della seconda stagione, ero profondamente insicura. Ero spesso stordita, talmente debole, che pensavo di essere sul punto di morire. Soggiornando in un hotel di Londra durante un tour pubblicitario, ricordo vividamente di aver pensato, non posso continuare o a pensare o a respirare, ancor meno cercare di essere affascinante. Sorseggiavo morfina tra le interviste. Il dolore era lì, e la fatica era la peggiore che avessi ma i provato, moltiplicata per un milione. E, diciamolo, sono un’attrice. La vanità è parte del lavoro. Trascorrevo fin troppo tempo a pensare all’apparenza. E come se questo non fosse abbastanza, sbattevo la testa tutte le volte che entravo in un taxi.
La reazione alla prima stagione fu, naturalmente, fantastica, sebbene sapessi ben poco di come se ne tenesse il conto. Quando un amico mi chiamò dicendo: “Siete al numero uno su IMDb!” gli dissi: “Cos’è IMDb?”
Il primo giorno di riprese della seconda stagione, a Dubrovnik, continuavo a ripetermi: “Sto bene, ho vent’anni, sto bene”. Mi immersi nel lavoro. Ma, dopo il primo giorno, sono riuscita a malapena a tornare in hotel prima di crollare esausta.
Sul set, non perdevo un colpo, ma faticavo. La seconda stagione è stata la peggiore per me. Non sapevo cosa stesse facendo Daenerys. Se devo proprio essere onesta, ogni minuto del giorno pensavo di essere in procinto di morire.
Nel 2013, dopo il termine della terza stagione, accettai un lavoro a Broadway, interpretavo Holly Golightly. Le prove furono meravigliose, ma fu subito chiaro che non sarebbe stato un successo. Il tutto durò solo un paio di mesi.
Mentre ero ancora a New York per lo spettacolo, con 5 giorni residui di assicurazione medica, feci un esame cerebrale, che ormai faccio regolarmente. L’escrescenza sull’altro lato del mio cervello era raddoppiata in dimensioni, e i dottori dissero che avremmo dovuto “occuparcene”. Mi fu assicurata un’operazione relativamente semplice, più facile della prima. Non molto tempo dopo, mi ritrovai in una camera privata snob al Manhattan Hospital. I miei genitori erano lì. “Ci vediamo tra due ore”, disse la mia mamma, e mi sottoposi all’operazione, un altro viaggio attraverso l’arteria femorale fino al mio cervello. Nessun problema.
Se non che, un problema c’era. Quando mi svegliarono, urlavo dal dolore. La procedura era stata fallimentare. Avevo un significativo sanguinamento e i dottori misero in chiaro che le mie possibilità di sopravvivere sarebbero state precarie se non mi avessero operato di nuovo. Stavolta, però dovevano accedere al mio cervello alla vecchia maniera, attraverso il teschio. E dovevano farlo immediatamente.
La ripresa è stata anche più dolorosa della prima operazione. Sembrava avessi affrontato una guerra ben più cruenta di qualunque battaglia abbia mai vissuto Daenerys. Sono uscita dalla sala operatoria con un drenaggio che spuntava dalla testa. Pezzi del mio teschio erano stati sostituiti dal titanio. Ora, non è possibile vedere la cicatrice che curva dalla mia testa all’orecchio, ma non sapevo allora che non sarebbe stata visibile. E c’era, soprattutto, la costante preoccupazione che perdessi cognizione o funzioni sensoriali. La concentrazione? La memoria? La vista periferica? Ora dico alle persone che quello che ho perso è il buon gusto nello scegliere gli uomini. Ma, naturalmente, niente sembrava lontanamente divertente allora.
Ho trascorso un mese in ospedale di nuovo e, ad un certo punto, ho perso ogni speranza. Non riuscivo a guardare nessuno negli occhi. Avevo tremendi attacchi d’ansia, di panico. Non sono stata educata a dire “Non è giusto”; mi è stato insegnato a ricordare che c’è sempre qualcuno che sta peggio di me. Ma, vivere questa esperienza per la seconda volta, ha fatto svanire le mie speranze. Mi sentivo come il guscio di me stessa. Così tanto che ora trovo difficoltà a ricordare quei giorni neri nel dettaglio. La mia mente li ha isolati. Ma ricordo di essermi convinta che non sarei sopravvissuta. E, quello che è peggio, ero sicura che le notizie della mia malattia sarebbero trapelate. Ed è successo, per un fugace momento. Sei settimane dopo l’operazione, il National Enquirer pubblicò un articolo. Un giornalista mi fece una domanda a riguardo e io negai.
Ma adesso, dopo aver taciuto tutti questi anni, voglio raccontare tutta la verità. Vi prego di credermi: so di non essere la sola, di non essere unica. Innumerevoli persone hanno sofferto anche peggio, e con nessuna delle cure che sono stata così fortunata da ricevere io.
Un paio di settimane dopo la seconda operazione, sono andata con alcuni membri del cast al Comic-Con di San Diego. I fan al Comic-Con sono tenaci; non vuoi deluderli. C’erano diverse migliaia di persone nel pubblico, e, proprio prima di iniziare a rispondere alle domande, sono stata colpita da un tremendo mal di testa. E’ tornato quella sgradevole e familiare sensazione di paura. Ho pensato, ecco qui. E’ arrivata la mia ora; Ho imbrogliato la morte due volte ed ora è venuta a reclamarmi. Scendendo dal palco, la mia addetta stampa mi ha guardato e mi ha chiesto cosa non andasse. Gliel’ho detto, ma mi ha riferito che un reporter di MTV mi stava aspettando per un’intervista. Ho pensato, se sto per andarmene, posso anche farlo in diretta televisiva.
Ma sono sopravvissuta. Sono sopravvissuta a MTV e a molto altro. Negli anni dalla mia seconda operazione, sono guarita oltre ogni mia aspettativa. Ora sono al cento per cento. Oltre al mio lavoro come attrice, ho deciso di cimentarmi in una organizzazione benefica che ho aiutato a sviluppare in collaborazione con partners nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Si chiama SameYou, e mira a garantire cure per le persone che si stanno riprendendo da ictus e lesioni cerebrali. Sento una gratitudine sconfinata verso mia madre e mio fratello, verso i dottori e le infermiere, verso i miei amici. Ogni giorno sento la mancanza di mio padre, morto di cancro nel 2016, e non potrò mai ringraziarlo abbastanza per avermi tenuto la mano fino alla fine.
C’è qualcosa di gratificante, che va oltre la fortuna, nel giungere alla fine del “Trono”. Sono così felice di poter essere qui per vedere la fine della storia e l’inizio di qualsiasi cosa verrà.’
La nostra Emilia Clarke, ha affrontato tutto questo senza che nulla trasparisse nella maniera più assoluta. Non c’è stata intervista, red carpet o show in cui non abbia dato il cento per cento. Un caratteristica comune solo ai grandissimi professionisti. Ad oggi, sono trapelate alcune immagini assolutamente private che evidenziano la sofferenza patita e le gravi condizioni in cui versava. Noi te le mostriamo, col massimo rispetto, confermando il nostro sostegno ed il nostro affetto per Emilia Clarke.
La sensibilità di questa piccola grande donna, ce la fa apprezzare, se possibile, ancor più di quanto non facessimo già ed è per questa ragione che invito tutti a visitare la pagina della sua organizzazione benefica, ad informarsi e a contribuire, come possibile. She’s watching you!
Emilia Clarke esorta anche a raccontare la propria storia, la propria esperienza garantendo che avrà immenso piacere a leggere le testimonianze di tutti e i pensieri ed i commenti dei suoi fan, relativamente alla diffusione della sua storia.
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