Una storia vera è alla base di Gli uomini d’oro in uscita il 7 novembre con un cast, tutto italiano, formato da un parterre di attori pluripremiati: Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli, Giuseppe Ragone, la partecipazione di Gian Marco Tognazzi e la regia di Vincenzo Alfieri.
Ambientato a Torino nel 1996, racconta la storia di Luigi (Morelli), un impiegato postale con la passione per il lusso e le belle donne, che ha sempre sognato la pensione anticipata per trascorrere il resto della sua vita in Costa Rica. Quando i suoi piani per la vecchiaia vanno in fumo, scopre di essere disposto a tutto, persino a rapinare il furgone portavalori che guida tutti i giorni, perché la svolta della vita è proprio lì, alle sue spalle e il confine fra l’impiegato modello e il criminale è veramente sottile. Anche se dovrà rinunciare ad Anna (Matilde Gioli), la seducente ragazza incontrata in una notte sfrenata. Un colpo grosso, un piano perfetto. Niente armi, niente sangue. Un disegno criminale per cui avrà bisogno dell’aiuto del suo migliore amico Luciano (Ragone), ex postino quarantenne insoddisfatto, e soprattutto dell’ambiguo collega Alvise (De Luigi), tutto casa e famiglia e con una vita apparentemente senza scosse. Nella banda anche un ex pugile, detto il Lupo (Leo), tutto muscoli e poche parole, legato a Gina (Mariela Garriga), una donna forse troppo bella e forte per lui, e a Boutique (Gianmarco Tognazzi), un couturier d’alta moda con un’insospettabile doppia vita. Tuttavia, seppure inizialmente unito da un obiettivo comune, il gruppo, si troverà ben presto a fare i conti con una cifra davvero consistente, che ciascuno vorrebbe tenersi per sé.
Per raccontare quest storia, Vincenzo Alfieri si è ispirato ad un articolo del giornalista Meo Ponte, esperto di crimini. Curioso che scrivendo di questo fatto di cronaca accaduto a Torino nel 1996 appunto, così Ponte concludesse l’articolo:
«Se facessero un film tratto da questa vicenda, comincerebbe come I soliti ignoti di Mario Monicelli e finirebbe come Le iene di Quentin Tarantino».
Il 27 giugno 1996, un gruppo di dipendenti della sede centrale delle Poste si accorse che, diversi sacchi provenienti da diverse filiali, non contenevano soldi ma pagine del giornalino per bambini Topolino, tagliate proprio come fossero banconote, per un totale di 8 miliardi di lire. Fin da subito, la stampa soprannominò quella banda di malviventi “Gli uomini d’oro” (da cui il titolo del film). Le indagini si rivelarono più complicate del previsto, soprattutto per il contesto in cui il colpo era maturato: dilettanti allo sbaraglio che, quasi per scherzo, avevano sognato di diventare criminali per poi tramutarsi davvero in spietati furfanti.
Così, da un’idea bizzarra e strampalata nasce una specie di gioco, e dal gioco, un colpo vero e proprio che farà per giorni parlare la stampa e scervellare gli inquirenti, fino a quando, due settimane dopo, un inaspettato colpo di scena porrà fine alla vicenda. Del fatto di cronaca, il film, non è stato il primo adattamento. Nel 2018 uscì infatti il libro Il colpo degli uomini d’oro. Il furto del secolo alle Poste di Torino di Bruno Gambarotta, in cui venivano evidenziati il ruolo delle donne utilizzate come alibi e la trasformazione di uomini ordinari in strampalati criminali. Il film racconta una storia vera quindi, ma lo fa in una forma molto interessante e insolito; si apre con il fallo da rigore di Cravero su Tacchinardi nel derby tra Torino e Juventus del 3 dicembre ’95: Ravanelli dal dischetto non sbaglia a firma un clamoroso 5-0. Una scena che nel corso della storia rivedremo più volte, così come gli sfottò tra granata e bianconeri e il dramma dello juventino Ragone quando scopre che la rapina era programmata per il giorno di Juve-Nantes semifinale di Champions.
“Anche questa storia dimostra quanto il calcio riesca a entrare nelle vite della gente, è segno che davvero smuove nel profondo…Il calcio è la malattia nazionale“,
commenta Morelli.
I tre protagonisti vestono panni e interpretano personaggi decisamente insoliti per come siamo abituati a vederli. Morelli ne ha fatta di strada da quando interpretava l’imbranato Ispettore Coliandro, qui lo vediamo come la mente del furto, un uomo charmant, fascinoso.
“Mi ricordava Ray Liotta in Quei Bravi Ragazzi. Uno che ama la bella vita e vorrebbe vivere in un certo modo, ma nella quotidianità non ottiene quello che vuole”
Ha detto Alfieri. Per De luigi invece, l’ispirazione sarebbe venuta pensando a Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia.
“Mi chiedevo quale attore italiano potesse avere una faccia da buono che in realtà però nascondesse una drammaticità tale da farlo trasformare all’improvviso in un cattivo. Un giorno ero andato a trovare Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana sul set di Metti la nonna in freezer e lì ho conosciuto De Luigi. Era seduto di fronte a me, immobile, leggeva il suo copione e ogni tanto parlava al telefono, con un occhio vigile ma stanco. Sono rimasto folgorato da lui: è simpatico, pacato, educato. Un professionista incredibile, molto timido e riservato. In queste sue caratteristiche ho trovato proprio quello che stavo cercando. Fabio incarna il prototipo del “buono” per eccellenza, ed ho pensato che sarebbe stata una bella sfida farlo diventare un cattivo.”
Edoardo Leo dopo la fortunata trilogia di Non ci resta che il crimine lo vediamo con l’espressione da duro e i capelli impomatati, privo del suo solito accento romano.
“Edoardo ha un viso da duro ma uno sguardo buono, anche un po’ stanco. Il suo personaggio nel film è un uomo che sotto la scorza da macho non è un cattivo, anzi, è anche un po’ influenzabile e assoggettabile.”
A tal proposito Alfieri ha anche dichiarato che De Luigi, non avrebbe accettato subito il ruolo:
“Grazie, è un copione bellissimo, ma non lo farò mai”
ha risposto, ci son voluti quattro mesi per convincerlo. Con Giampaolo Morelli ed Edoardo Leo invece è stato un po’ meno difficile. Tutti e tre erano convinti dalla sceneggiatura, ma non lo erano altrettanto sul fatto che Alfieri sarebbe riuscito a girare un film così difficile. Erano dubbiosi, si leggeva scritto sulle loro facce:
“Hai trent’anni, hai fatto un solo film che non ha visto nessuno. Dove pensi di andare?”.
Poi alla fine gli hanno dato fiducia. La colonna sonora del film è affidata a Francesco Cerasi e costituisce un filo conduttore costante con la sua massiccia presenza, stabilendo la frequenza emotiva incalzante e dura della pellicola. Le melodie danno senso alla personalità dell’opera, mescolando insieme gli anni Novanta, decennio d’appartenenza della storia, e un’aria da crime contemporaneo, che va ridefinendo i diversi generi cinematografici perseguiti dal film. Il tutto è esaltato da una colonna sonora appropriata ad una pellicola che ha cura dei particolari e di ogni singolo personaggio.