L’ultimo film di Werner Herzog è un film poetico che rimane a lungo nella mente dello spettatore. Anche se dire questo non aiuta a capire Family Romance, perché tutti i film di Werner Herzog sono così.
Stanley Kubrick è tra i miei registi preferiti, ma ha battuto Werner Herzog al photo-finish. Kubrick ha vinto perché abbiamo una visione del mondo più o meno simile, perciò lo sento affine; Herzog mi affascina proprio perché il suo sguardo poetico e visionario va molto oltre il mondo così come lo vedo.
Family Romance è un film, ma è girato come se fosse un documentario, senza enfasi, senza la pretesa di fare una morale. Il protagonista è il titolare di una ditta che offre adeguati sostituti per ogni occasione; per esempio, il padre di una sposina è un ubriacone e si teme che possa far figuracce alla festa di nozze? Per un compenso adeguato, la ditta fornisce il padre ideale che accompagnerà la sposa all’altare o quel che è perché, non lo abbiamo ancora detto, il film è ambientato e girato in Giappone. Credo che se fosse stato girato in Europa o negli States sarebbe stato percepito come una sorta di metafora o di distopia; in Giappone diventa congruo, almeno per noi occidentali.
Riconosco che mi è difficile liberarmi dagli stereotipi che ho sul Giappone, soprattutto perché ne so molto poco: non sono mai stata una lettrice di manga e non sono neanche mai riuscita a finire nemmeno uno dei libri dei rari autori giapponesi conosciuti in Italia: Mishima mi sembra un pazzo nazista, Bana Yoshimoto poco meno di un cartone animato. La sola cosa che conosco è Sogni (Hime) di Akira Kurosawa. Forse perciò la cultura giapponese mi è completamente aliena. A conferma di quel che dico: nel film il protagonista si prende una strigliata coi fiocchi da un dirigente delle rapidissime ferrovie giapponesi, al posto del vero responsabile, per aver fatto partire un treno con venti secondi di anticipo. Provate a fare tre anni di pendolarismo fra Pisa e Firenze come ho fatto io, poi ditemi se non vi sembra assurdo.
Bando alle ciance; la storia che fa da filo rosso al film è quella di Mahiro, una bambina orfana di padre, alla quale la madre procura un padre fittizio che le dice di aver divorziato quando lei era troppo piccola per ricordarlo. Fra i due nasce un sincero affetto, tanto che la bambina chiede di andare a vivere con lui e il “padre” conclude il film sugli scalini di casa sua, dove vive la sua vera famiglia, con la testa fra le mani.
Lo stile da documentario non lascia presagire un finale simile, anche se ci sono diverse esche: il protagonista visita un albergo che, alla reception, usa robot dall’aspetto umano e commenta che gli sarebbero utilissimi per la sua attività. Poi la ragazzina gli confida il suo primo amore; quando la madre, che ne ha il sospetto, chiede al finto padre se gli avesse confidato qualcosa in proposito, lui nega senza motivo apparente. Infine il “padre” va in un’agenzia di pompe funebri a cercare una bara della sua misura: non lo sapremo fino alla fine, ma la sua soluzione finale è quella di fingere la sua morte per allontanarsi definitivamente da Mahiro, perché nella sua attività “non si può amare, né essere amati“.
È impossibile che non torni alla mente Intelligenza artificiale di Steven Spielberg, che era un progetto di Kubrick, ma la morte gli ha impedito di realizzarlo. Ho sempre rimpianto che non lo avesse diretto Kubrick; Spielberg è un bravo regista, ma è irrimediabilmente e convenzionalmente hollywoodiano; alla fine riesce sempre a rovinare un film che, fino a quel momento, era perfetto. Peccato perché era partito bene, Duel era un film da trenta e lode. Intelligenza artificiale rimane uno dei suoi film più belli, ma alla fine non riesce a sfuggire alla melassa, probabilmente imposta dai produttori; Spielberg, quando vuole, sa fare di meglio. Se quel film lo avesse girato Kubrick, non ho dubbi che sarebbe stato molto più simile a Family Romance che a Intelligenza artificiale, per quanto si parta da presupposti diametralmente opposti: da una parte una macchina programmata per avere sentimenti umani, dall’altra un essere umano che si assume il compito di avere l’indifferenza di una automa. Eppure, rimango convinta che l’effetto sullo spettatore sarebbe stato molto simile perché Kubrick e Herzog non sono due registi qualsiasi, sono due registi di genio.