Falling. Nel titolo c’è già tutto. Il senso di una caduta, una caduta ineluttabile, un precipitare. E anche il senso dell’inglese “to fall in love”, innamorarsi. Perché è anche, o forse soprattutto, la storia di un amore. Un amore coriaceo, duro a morire, difficile da cancellare. Da ammettere, persino a se stessi. Presentato al Sundance Film Festival, poi nell’edizione “fantasma” del festival di Cannes, ora in streaming su MYmovies ONE, Falling – Storia di un padre è il primo film da regista di Viggo Mortensen.
Uno che, dopo aver fatto Aragorn nella trilogia del Signore degli Anelli, ha cercato sempre strade non banali, quando non impervie, rischiose: quattro film con David Cronenberg, che in Falling gli concede un cameo da attore, o progetti coraggiosi come Captain Fantastic, in cui interpreta un padre hippie, ecologico e “chomskiano”, con una pletora di figli che crescono colti e selvaggi, e vivono in un bus.
Falling è un film che non fa sconti, che ti fa bere fino in fondo l’amaro calice della realtà. Ti mostra la vita così com’è. Il film racconta due brevi periodi di tempo in cui si ritrovano un padre e un figlio. Un padre anziano, attaccato dalla demenza senile, male che spinge alla compassione. Ma quest’uomo è ugualmente detestabile, imperdonabile. Omofobo, misogino, prepotente, conservatore. Pregiudizi razziali, sociali, sessuali ne invadono la coscienza come metastasi.
Il figlio, interpretato da Mortensen, è pilota di aerei, omosessuale. Con un marito infermiere di origine hawayana/cinese, e una figlia adottiva ispanica. Il film sta in piedi, si tiene, nella tensione dello scontro fra loro due. Il film è tutto nella durezza velenosa dei commenti del padre: la sceneggiatura intreccia nei suoi dialoghi luoghi comuni omofobi, machismo, cinismo spicciolo, sarcasmo malevolo.
E la forza del film, la sua tensione, sono nella tensione del figlio per non reagire, per non ridiventare l’adolescente vulnerabile che amava e odiava suo padre. È un film che cammina sul filo di una tensione terribile, e già per questo sarebbe bellissimo.
Poi ci sono gli altri: il marito asiatico, che ama con discrezione, una sorella interpretata da Laura Linney con la consueta bravura, e il padre. La cui interpretazione è affidata a Lance Henriksen, uno che ha fatto più di 250 film, che qui trova il ruolo della vita e non se lo lascia scappare. La sua è un’interpretazione che blocca il respiro: abbaia sconcezze e enormità, ma lascia intravedere un dolore profondo.
Visivamente, Mortensen non cerca belle inquadrature fini a se stesse, che si prendano la scena, ma neppure usa la camera solo per filmare teste che parlano. Intesse il suo film di inquadrature profondamente belle, quietamente belle, essenziali.
Racconta con stile, Mortensen, un film sulla forza distruttrice che sembra pervadere il padre, che lo porta a rovinare la sua vita. Un film che è anche una riflessione sul tempo, sul poco tempo che ci è dato. Che ti brucia la pelle come carta vetrata, e altre volte è tenero, quando meno te lo aspetti.