Vabbè, dai. Ero in procinto di realizzare la gag di far scrivere tutto alla IA, con i testi che Chat GPT m’aveva già preparato, fra una reinterpretazione a Curma dell’Italian Brainrot di Bombardino Cocodrilo e deliri Zigghi Totale vari e assortiti.
E invece no. Concettualmente troppo basic nel 2025. Roba da lasciare a bocca aperta giusto la sciura Marla di turno. E allora vecchia maniera, parola per parola, nel pedissequo rispetto del contratto stipulato con la testata.

Ad ogni modo, al momento in cui scrivo, la settima stagione di Black Mirror è issata al 4⁰ posto delle serie più viste su Netflix, e, dopo due stagioni fuori dalla grazia della Maga, la creatura di Charlie Brooker è tornata più vispa che mai, tra distopia e fiducia nella tecnologia.
6 puntate indipendenti l’una dall’altra, dove il fil rouge sono gli easter egg, con tanto di gioco interattivo disponibile sulla piattaforma. Un’antologia tra il presente e il possibile, un ponte algoritmico la cui sola certezza è che l’oggi è già passato.
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Eulogy: Voto 9

Il quinto episodio della serie, magistralmente interpretato da Paul Giamatti, è un malinconico inno a un amore che fu, nella prospettiva di un anziano che rimembra la gioventù, tramite un sistema tech in grado di far entrare la mente all’interno di vecchie fotografie.
Phillip Connarty, infatti, solo e dedito ai roseti, viene contattato telefonicamente da Eulogy, azienda futuristica che si occupa di memoriali immersivi, data la recente scomparsa di Carol, sua fidanzata di molti anni prima.
Un’esplorazione di ricordi struggente e dolorosa, con l’indispensabile ausilio di The Guide, avatar femminile incarnata da Patsy Ferran, alba e tramonto di una storia agrodolce, tra sorrisi al violoncello e rimorsi da bohémien.
47 minuti di emozioni contrastanti, chiusi con l’unico lieto fine possibile, ricco di umanità, lontano dalle distopie da Terminator a cui il franchise ha abituato gli abbonati di lungo corso.
Gente comune: Voto 8

Episodio d’apertura della serie, Gente comune, di contro, rientra nella perfetta definizione di distopia, con l’immagine dell’inadeguatezza del sistema capitalistico in relazione alle innovazioni tecnologiche legate alla sopravvivenza medico-biologica delle persone.
Mike (Chris O’Dowd) e Amanda (Rashida Jones) sono una coppia come tante, con le aspirazioni sia proletarie che borghesi tipiche del Novecento. Lui saldatore, lei insegnante, vorrebbero avere un bambino, con la loro automobile anni ’70 anticlimatica alle api robot citate nei 57 minuti.
Un avvenire che crolla, tuttavia, nell’istante in cui un tumore al cervello provoca un collasso neurologico a Amanda, che la riduce in coma irreversibile. Ecco allora entrare in scena Gaynor (Tracee Ellis Ross), commerciale della RiverMind, azienda biotech la quale tecnologia è la sola via per il risveglio.
L’abbonamento streaming che aumenta sempre più di prezzo, la pubblicità nelle conversazioni, il marketing applicato alla vita, le mortificazioni su Dum Dummies… insomma, un chiaro esempio di come a volte i miracoli della speranza siano strade infernali, ben peggiori delle tragiche perdite che ispirano i poeti.
USS Callister: Infinity: Voto 7.5

Episodio di chiusura della serie, USS Callister: Infinity è la seconda parte della dilogia iniziata nel primo episodio della quarta stagione, una rarità per Black Mirror, siccome in genere non riprende mai lo stesso universo narrativo in puntate differenti.
Una sorpresa distopica sfumata, dato che lo spettatore conosce il contesto di riferimento, ma che rilancia con un’avventura da pirati spaziali, cloni digitali all’interno del videogioco Infinity, la realtà virtuale creata da quel bravo ragazzo di Robert Daly (Jesse Plemons), in società con il CEO dei CEO James Walton (Jimmi Simpson).
Al comando dell’astronave USS Callister, dopo gli eventi della prima parte, troviamo la deutero Nanette Cole (Cristin Milioti), mamma di una fazione dedita a programmi trash alla Kardashians, nel mentre 30 milioni di giocatori da cameretta e ignari di tutto sono pronti a ucciderli per intascare i relativi crediti.
Un’ora e mezza tra Fortnite e Star Trek, con dettagli da Guerre Stellari, che spazia piacevolmente su più registri, financo nel comico demenziale, perché anche il futuro più sinistro, postmoderno alla postmodernità stessa, non può prendersi sul serio fino in fondo.
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Hotel Reverie: Voto 6.5

Se cercate brividi e amore, allora venite all’Hotel Reverie. Queste le parole a schermo, intro di un film romantico in bianco e nero, gloria della settima arte che fu, un cult targato Keyworth Pictures, società di produzione sull’orlo della bancarotta guidata dall’anziana e decadente Judith Keyworth (Harriet Walter).
Il terzo episodio della serie, tuttavia, si trasforma presto in un esempio di meta cinema, quando Kimmy (Awkwafina), direttrice della ReDream, propone di sostituire l’attore protagonista dell’epoca con uno dei Ryan di grido oggi, che sia Gosling o Reynolds non importa, al diavolo.
Dopo le gag divertenti sulle sorti dell’industria cinematografica delle prime scene, sul set si presenta Brandy Friday (Issa Rae), la quale, stufa di avere soltanto ruoli da vittima o spalla scopabile, è riuscita a ottenere la parte di Alex Palmer, il casanova di turno che dovrebbe sedurre la triste ereditiera Clara, interpretata da Dorothy Chambers (Emma Corrin).
Se il concetto di fondo è super interessante, con l’immersione in realtà virtuale dell’attrice, che interagisce con copie digitali dei personaggi fino al momento in cui Dorothy si emancipa da Clara divenendo sé stessa, con una ridefinizione di ciò che è reale e ciò che è fiction, al di là di quanto stabilito dal copione dell’opera, lo è meno la realizzazione. La durata di un’ora e 17 minuti, troppo per quel che si ha da dire, unita a una certa ridondanza, può far scappare il dito sulla rotellina dell’1.5, al netto di un finale da malinconico sorriso.
Come un giocattolo: Voto 6

Clicca, clicca, clicca. Schiudi l’uovo. Nutrili. Falli giocare. Lavali. Usa lo shampoo. Attenzione, si replicano facilmente. Trattali bene. Ho passato 5 minuti su Black Mirror: Throngles, gioco mobile Netflix ispirato alla quarta puntata della serie, e, piuttosto stufo di questi Tamagotchi infestanti, ho provveduto a una liberatoria disinstallazione.
Cosa che, evidentemente, ahinoi, non ha fatto Cameron Walker, improbabile hippie old style interpretato da Peter Capaldi. Ma andiamo con ordine. Il protagonista di Come un giocattolo, disorientato nello stare al mondo, infatti, viene fermato in seguito a un tentativo di furto, e poi, quando il suo DNA lo correla a un omicidio avvenuto negli anni ’90, arrestato e messo sotto torchio dallo sgradevole Ispettore Kano (James Nelson-Joyce).
L’interrogatorio, a questo punto, diviene la scusa narrativa per raccontare la vita di Cameron, dagli esordi da recensore della testata PC Zone (con le fattezze di Lewis Gribben), sino all’incontro col visionario programmatore Colin Ritman (Will Poulter), la mente creatrice della simulazione interattiva Throngles.
Tra deliri da LSD, utopie da superamento del conflitto e brutalità repressiva, i 46 minuti scorrono senza entusiasmo, nell’insofferenza verso tutti i personaggi, con un unico grande traino: voler conoscere l’epilogo della vicenda. E, per fortuna, almeno il colpo di scena non deluderà.
Bestia nera: Voto 5

Soluzione pacchiana a un problema già visto. Bestia nera, secondo episodio della serie, rientra nel filone della fantascienza alla Philip K. Dick, senza tuttavia la raffinatezza e l’inventiva d’avanguardia dello scrittore nativo di Chicago.
Una storia che, privi di consapevolezza sulla tipica conclusione di queste vicende, appare intrigante all’incipit, con Maria (Siena Kelly), ricercatrice presso una fabbrica di cioccolato, la Ditta, che comincia a notare una serie di lievi differenze nella sua quotidianità, dalle parole con le lettere cambiate alle mail inviate e misteriosamente modificate.
Tutto ciò da quando a lavoro è comparsa Verity (Rosy McEwan), sua compagna ai tempi della scuola, nerd per nulla popolare nei corridoi dell’epoca, che, però, brutto anatroccolo diventato cigno, pare ora ben voluta da tutti, a partire dal capo di Maria, che la assume in una posizione mai aperta.
50 minuti appassionanti finché non s’intuisce il punto, una tipologia di storia oltre le distopie sopra le righe di Black Mirror, che scade in un finale troppo inconsistente financo fosse vero.