Takara, la notte che ho nuotato è un racconto microscopico ed estremamente minimale, diviso in tre anni: disegno, il mercato del pesce e il lungo sonno
Dopo Un jeune poète e Le parc il regista francese Damien Manivel, insieme a Igarash Koheii, crea un nuovo lavoro minimalista con una trama semplice e infantile dai toni poetici.
Siamo in Giappone, precisamente in un piccolissimo paese situato sulle montagne, e una famiglia composta da quattro persone abita in una di queste piccole abitazioni circondate dalla neve. La storia inizia quando, in piena notte, il figlio più piccolo si veglia e inizia a disegnare qualcosa. La mattina successiva rivediamo quel disegno, che raffigura gli abitanti del mare, quelli con cui il padre lavora all’interno del mercato del pesce. Il bambino, assonnato e con il suo zaino sulle spalle, si allontana verso la scuola per affrontare una nuova avventura.
Takara, la notte che ho nuotato è una piccola gemma preziosa, un racconto piccolo e minimale, appunto, perché è tutto ridotto all’osso: assistiamo a lunghe inquadrature dove le azioni sono estremamente semplici (lo vediamo mangiare un mandarino, scavalcare un recinto o tirare delle palle di neve a uno specchio convesso). Azioni semplici che nel loro insieme rappresentano la grande avventura di questo piccolo uomo.
Ci rivediamo la semplicità di Charlie Chaplin, ma anche il punto di vista di un cinema quasi neorealista; la telecamera infatti non a caso è sempre puntata a livello del bambino. Proviamo e sentiamo tutte le emozioni e le sensazioni che sente Takara: insieme a lui ascoltiamo il silenzio della notte e ci emozioniamo con lui per la neve, ci sentiamo liberi come lui quando girovaga per le strade innevate alla ricerca del mercato del pesce.
Non è un caso che la colonna sonora di Takara siano proprio le note della Primavera di Vivaldi, che vibra nell’aria fin dall’inizio e conclude il film. Come la neve anche la musica circonda e avvolge i personaggi di questa storia.
Takara usa una comunicazione molto essenziale: con elementi semplici e istintivi. La particolarità di questa pellicola è senza dubbio l’assenza totale dei dialoghi, le poche interazioni di Takara sono riprese da lontano e non riusciamo ad udire quello che viene detto. Al contrario viene dato un ampio spazio alla messa in scena delle sue emozioni (sorpresa, rabbia, noia o smarrimento). Tutto questo attraverso l’uso di immagini estremamente pulite e nitide. Takara può essere considerata una fiaba messa su pellicola. Takara fa ricordare a noi adulti il mondo dei bambini e le avventure che si possono vivere al suo interno, lasciandoci sperare di poter rivivere il mondo con gli occhi che forse non abbiamo mai perduto, sono solo celati nel nostro profondo.
Un altro protagonista assoluto è l’ambiente che circonda il personaggio. Un Giappone molto diverso da quello a cui siamo abituati: non è la frenetica Tokyo, ma appunto un piccolo paese circondato dalla natura, cosa che possiamo apprezzare grazie anche alla favolosa fotografia.
Takara può essere definito come un esperimento gradevole e decisamente ben riuscito, è allo stesso tempo un racconto dallo sguardo intimo ma, contemporaneamente, oggettivo. Vediamo le emozioni emergere, ma le guardiamo dalla giusta distanza, con occhio discreto.