28 anni dopo la diffusione del virus della rabbia in Gran Bretagna, l’isola è ancora in quarantena e l’infezione continua a manifestarsi: gli infetti sono ora più evoluti e ognuno sopravvive come può. Una piccola comunità vive lontana dalla terraferma, ma il giovane Spike (Alfie Williams) deve addentrarsi in zone che pullulano di pericoli per salvare un membro della sua famiglia. Il film si regge completamente sulle proprie gambe, ma è un’espansione dell’universo narrativo di 28 giorni dopo, horror di culto diretto dal britannico Danny Boyle e scritto da Alex Garland, e costituisce il primo capitolo di una nuova trilogia.
Da 28 giorni a 28 anni dopo
28 giorni dopo adesso sembra un film come un altro, uno che a prima vista sembrerebbe non essere nemmeno invecchiato particolarmente bene. Eppure, quando uscì nel 2002, l’horror di Boyle rappresentò una novità: fu uno dei primi film girati totalmente in digitale a ricevere un’ampia distribuzione, e presentava un’interpretazione originale degli zombie movie alla Romero, dando una rinfrescata al genere e contribuendo ad influenzare film, serie tv e videogiochi incentrati su virus letali, mondi post-apocalittici e infetti mostruosi. Boyle e Garland hanno a lungo considerato di tornare in quell’universo narrativo che era stato già portato avanti nel 2007 dal decente ma dimenticabile 28 settimane dopo.

I due cineasti hanno deciso di mettere in cantiere un sequel solo quando la realtà ha riattualizzato il primo film rendendolo quasi profetico, prima con la Brexit – simbolo di un Regno Unito isolato e che guarda indietro – e poi con la pandemia di Coronavirus, che ha portato a galla paure fino a quel momento conosciute soltanto nei film dell’orrore. La scena più iconica di 28 giorni dopo, quella in cui il personaggio di Cillian Murphy vaga per una Londra deserta, è diventata realtà durante il lockdown, come ricordato dallo stesso Boyle nel corso della presentazione del film a Roma. Il regista ha confermato come questi due eventi siano stati d’ispirazione nel dare forma al nuovo film.
28 anni dopo e la sfida di ridare freschezza al genere
Nel corso degli anni, le storie su società post-apocalittiche ormai allo stremo in cui si cerca di sopravvivere sono proliferate all’interno della cultura pop, perciò riuscire a proporre qualcosa di autenticamente nuovo o perlomeno interessante in quest’ambito è una sfida tutt’altro che semplice. Garland e il regista riescono però a conferire una certa freschezza a 28 anni dopo, e non solo per i parallelismi con gli eventi sopracitati.
È soprattutto Boyle a infondere personalità all’opera grazie alle tecniche di ripresa. Il film è stato infatti girato utilizzando anche Iphone e droni, e il risultato è una regia dinamica che (insieme a un montaggio serrato fatto di rimandi) nelle sue imperfezioni risulta destabilizzante e originale. 28 anni dopo, pur mantenendo solo parzialmente lo spirito quasi “punk” del primo film, si pone in continuità con il capostipite attraverso questa volontà di sperimentare, e riesce a restituire ottimamente il senso di tensione e pericolo agli spettatori.

28 anni dopo ripropone inoltre situazioni non esattamente inedite all’interno del genere, ma le sovverte. Come The Road, The Last of Us ed altre opere accomunabili, il film si apre con una figura paterna (Aaron Taylor-Johnson) che affronta insieme al figlio Spike i pericoli di un mondo in rovina, cristallizzato nel tempo. Col passare dei minuti però è proprio il ragazzino ad acquisire più centralità, diventando l’indiscusso protagonista, ed è il personaggio della madre (Jodie Comer) ad accompagnare Spike per il resto del film, pur lasciando al figlio le redini del viaggio.
Questa sostituzione segna un cambio di paradigma: il giovane passa dall’addestramento imposto dal padre, il cui obiettivo è farlo abituare alla morte inflitta agli infetti, all’involontaria responsabilità donatagli dalla madre. Spike deve fare i conti anche in questo caso con la fine della vita, ma con nuovi significati. In questo è fondamentale l’apporto del dottor Kelson: il solitario personaggio interpretato da Ralph Fiennes viene presentato in modo enigmatico, con l’accento posto sulla sua presunta pazzia e pericolosità, come se ci trovassimo di fronte al Colonnello Kurtz di Apocalypse Now.
Anche in questo caso 28 anni dopo offre delle sorprese, ribaltando topoi narrativi a cui siamo assuefatti; ma prende anche in prestito felici intuizioni dalle opere che a loro volta erano stato ispirate dal capostipite della saga – a cominciare dalle mutazioni degli infetti, primo tassello di un solido world-building.
Cosa funziona meno in 28 anni dopo
La sceneggiatura di 28 anni dopo riesce nel suo intento pur non essendo priva di scricchiolii, a cominciare dagli interventi dell’ultimo minuto da parte di deus ex machina che salvano più di una situazione. Il personaggio di Aaron Taylor Johnson, inoltre, viene accantonato in modo eccessivo laddove qualche scena in più avrebbe dato maggior forza alla storia familiare che regge la trama in modo comunque convincente, così come la vita all’interno del villaggio avrebbe potuto ricevere più attenzione per rendere più significativa la scelta finale del protagonista.

28 anni dopo si configura, a sorpresa, come un coming of age ambientato in un mondo che si confronta continuamente con la presenza della morte, e il cerchio viene chiuso in maniera intelligente. È un peccato che il film termini con una scena che (nonostante chiuda un altro cerchio) avrebbe funzionato meglio se piazzata alla fine dei titoli di coda, visto che serve unicamente a lanciare il sequel già pronto che dovrebbe uscire all’inizio del 2026. Il suddetto momento sembra un corpo estraneo, anche nei toni, fin lì molto bilanciati anche nei rari sprazzi di leggerezza.