(Star Wars: Skeleton Crew è disponibile su Disney+ completo da gennaio 2025).
Pare un sobborgo americano, ma ci sono gli elefantini antropomorfi. L’impatto con il pianeta At-Attin, zecca di crediti della cosiddetta Vecchia Repubblica, è un connubio di spiriti del tempo molteplici, zeitgeist di suggestioni tra presente, passato e futuro.
Sì, insomma, la base è il tipico quartiere da sit-com, quello col viale al centro e le casette al sapore di 4 luglio e chewing gum, dal quale potrebbe sbucar fuori un Malcolm qualsiasi, o perché no anche un Gym.

A far capolino, invece, è Wim, bambino sfigatello che, tra un farai tardi a scuola del padre e i combattimenti inscenati con i soldatini, ha il sogno dichiarato di diventare uno Jedi, i monaci guerrieri più fichi della galassia.
Una grande avventura, dunque, condivisa nelle idee con Neel, alieno impacciato dalla buffa proboscide con cui duella a spade laser immaginarie, dinnanzi alla fermata del classico scuolabus giallo made in Simpson.
E qui si dipana la seconda dimensione, di un tempo perduto, le cui arretratezze e opportunità emergono sincroniche.
E così alla ottusa burocratizzazione scolastica, dove financo la verifichetta di geografia del giovedì somiglia ai test di ammissione a medicina, si sommano gli infiniti segreti del mondo pre-tecnologico, in cui non è assurdo pensare a templi Jedi nascosti nella foresta del tragitto casa-aula.
Ma pur essendo in una galassia lontana lontana, tanto tempo fa, Star Wars significa soprattutto futuro. Astronavi, androidi, intelligenza artificiale (con taluni riverberi passatisti di un avvenire paradossale, vedasi, ad esempio, alla voce scuola), ologrammi, cyborg.
Un repertorio contraddittorio, con le aspirazioni e i fantasmi dei nostri anni ’80 ancora vivi, dove esistono robottoni parlanti ma si comunica col walkie-talkie, dove si sfreccia con veicoli senza ruote ma un bambino da solo può trovare tesori.
Skeleton Crew, ma dov’è Jude Law?

Ciò che è microcosmo in At-Attin, mondo protetto da una barriera di energia che lo isola dalle minacce interstellari, diviene macrocosmo nel resto della galassia.
Le prodezze della tecnica convivono con mancanza di cibo, l’esistenza dei droidi non preclude la schiavitù, la maestria nei campi elettromagnetici non impedisce prigioni stile Conte di Montecristo.
E proprio in uno di questi Castelli d’If spaziali troviamo Jod Na Nawood, il personaggio di Jude Law, avido mascalzone dietro fatiscenti sbarre.
Dotato della Forza che contraddistingue gli Jedi, potrebbe liberarsi quando vuole, ma attende una nave con cui evadere. Quale occasione migliore, quindi, quando scopre che i quattro marmocchi in cella con lui hanno un mezzo con cui fuggire?
Già, quattro. Ai due citati sopra, appunto, rocambolescamente trovatisi nello spazio, si sono unite Fern, la capa classe so tutto io, e KB, sua amichetta del cuore con visiera cibernetica.
Una vera avventura, allora, a bordo della Onyx Cinder, una nave pirata di cui dell’equipaggio originale resta solo SM-33, buffo robottone che i pischelli utilizzano per sfidare apertamente l’autorità di Jod.
Dinamica, non a causa del simpatico droide, che alla lunga stanca però, poco credibile, siccome pare difficile che lo scaltro imbroglione di Jod possa farsi prendere per il naso più volte da quegli improbabili da scuola elementare.

A ogni modo, la serie firmata John Watts e Christopher Ford, chiaramente ispirata a I Goonies, ha come target principale i bambini, perciò scelte di dubbio interesse possono essere viste in tale ottica, così come i dialoghi non sempre all’altezza.
(Ho detestato i nanerottoli per tutti e 8 gli episodi…).
Un universo ricco di magia, con tanto di gufi parlanti e mappe d’altri tempi, che al netto delle atmosfere di nostalgico futurismo tuttavia non tiene incollati allo schermo, nonostante la durata delle puntate abbia un minutaggio contenuto.
Qualche scena ben riuscita, sì, vedasi ad esempio l’attacco pirata in incipit, o l’arrivo alle terme della combriccola di Jod, ma il rischio che Skeleton Crew possa annoiare c’è, culminato, peraltro, da un finale aperto che lascia piuttosto a desiderare.