(La prova, al momento della recensione, è al 3⁰ posto delle serie più viste su Netflix).
Era il 28 febbraio 1986, una serata di cinema a Stoccolma. Olof Palme, Ministro di Stato in carica, rientrava a casa quando un ignoto gli sparò con una .357 Magnum, uccidendolo in pieno centro.
Il mistero, a quasi 39 anni di distanza, non è ancora stato risolto, nonostante quella sull’assassinio del leader socialdemocratico, tutt’ora in corso, sia la più lunga e costosa indagine portata avanti nella storia della Svezia.
La prova, di contro, è la storia della seconda più lunga e costosa indagine portata avanti nella storia della Svezia, un duplice omicidio che il 19 ottobre 2004 sconvolse la cittadina di Linköping, il quale, 16 anni dopo, verrà risolto grazie a un innovativo approccio investigativo basato sulla genealogia.
La prova, un noir che lascia il segno
Tra passato e presente, La prova è un prodotto che gli appassionati di polizieschi d’atmosfera non possono davvero perdere.
Nelle prime due puntate, quelle ambientate nel 2004, infatti, si avvertirà tutta la suspense e il dramma di quanto accaduto, visto dalle diverse angolazioni dei vari personaggi coinvolti.
Una narrazione che si prende il suo tempo, mai frenetica, ma che risulta perfetta nel ritmo, adatto a trasmettere le emozioni di quanti, a vario titolo, verranno coinvolti nella tragedia.
A partire da colui che dedicherà notti insonni alle indagini, l’ex olimpionico John Sunding, poliziotto interpretato da Peter Eggers, e dalle famiglie di Adnan e Gunilla, il bambino e la donna pugnalati in strada dal killer.
Un’aria di tensione, fantascienza e crudezza a parte, che richiama i primi momenti investigativi di Dark, anche, forse, per la somiglianza visiva tra il protagonista svedese e Oliver Masucci, interprete di quell’uomo senza qualità di Ulrich nel successo tedesco degli anni che furono.
La prova, la genealogia dell’oggi
La miniserie Netflix, inevitabilmente, nelle ultime due puntate sfuma il dolore del 2004, con un focus più puntato sulla quotidianità burocratica dell’indagine, la quale, senza esito, si dovrebbe archiviare a breve per mancanza di fondi.
Cosa che John Sunding vuole evitare a qualsiasi costo, e che ritrova entusiasmo con le notizie dall’America su Joseph James DeAngelo, il Golden State Killer catturato dopo oltre 30 anni per mezzo dei moderni test del DNA.
Da qui l’idea di contattare Peter Sjölund, geniale ma incompreso esperto di genealogia interpretato da Mattias Nordkvist, il quale, più che scoprire l’identità del padre della zia Pina di turno, ambirebbe a tracciare l’albero genealogico dell’umanità.
Tornando al detective, John infine è un uomo che vorrebbe costruire un rapporto con il figlio adolescente, trascurato nella crescita proprio a causa dell’ossessione di trovare l’omicida. Un uomo che a causa della sua sete di giustizia non è stato accanto alla (ex) moglie durante la gravidanza; un uomo che non vuole che Per (il soprannome di Sjölund) compia i suoi stessi errori, permettendogli in un momento clou di stare insieme alla figlia chiusa al mondo.
Il tempo stringe, i giornalisti incalzano, il GDPR (forse) è violato. Il finale, tuttavia, nonostante il successo, lascia decisamente l’amaro in bocca, pur nell’ineluttabile anticlimax che la realtà ha offerto come spunto.
La prova, la verità dietro la fiction
I 4 episodi, tratti dal libro The Breakthrough di Anna Bodin e Peter Sjölund (il genealogista), pur essendo aderenti alla realtà nella sostanza, modificano nomi e circostanze della vicenda.
Le vittime, ad esempio, furono Mohamed Ammouri, di 8 anni, e Anna-Lena Svensson, di 56 anni, a differenza di quanto avviene nello sceneggiato, in cui a cadere sotto la furia del coltello a farfalla furono i già citati Adnan e Gunilla.
Si potrebbero, per concludere, fare analisi sul killer, sulle motivazioni e il destino ultimo di questo, ma, sebbene non sia il giallo classico dove ciò è tutto o quasi, preferisco non porre in essere ulteriori spoiler.
Riassumendo, a mio giudizio La prova vale il tempo speso. Approvato.