Liv Ullmann è un’attrice, regista e sceneggiatrice norvegese rimasta nella storia per le sue intense interpretazioni nelle opere di Ingmar Bergman, ma non solo. Sin da giovane ha dato prova del suo talento recitativo e della sua capacità di dar vita a personaggi sempre più complessi, tanto da toccare l’animo dello spettatore.
Liv Ullmann: l’infanzia
Di origini norvegesi, Liv Ullmann nacque il 16 dicembre 1938 a Tokyo, città dove la sua famiglia si era trasferita a causa del lavoro del padre, Erik Viggo Ullmann. Quest’ultimo era un ingegnere aeronautico, professione che lo portava a spostarsi da un luogo ad un altro, portando con sé la sua famiglia. Successivamente, a causa dell’invasione nazista della Norvegia durante la Seconda guerra mondiale, la famiglia Ullmann si trasferì prima a Toronto, in Canada, poi negli USA, a New York, quando l’attrice aveva solo due anni.
Cinque anni dopo, nel 1945, Liv Ullmann rimase orfana di padre, venuto a mancare a causa di un incidente con l’elica di un aereo. Data la giovane età, l’attrice ha sempre riscontrato grande fatica nel ricordare la figura paterna e, come da lei stessa dichiarato, negli anni ha tentato di dargli un volto e, addirittura, per un certo periodo si era convinta che il padre fosse il celebre James Stewart e che la madre, Janna Erbe, avesse mentito riguardo alla sua morte proprio a causa della sua fama.
Dopo il tragico incidente, la madre si ritrovò a dover crescere da sola le due figlie, Liv e Janna Erika. la famiglia Ullmann fece così ritorno in Norvegia, presso la città natale della madre, Trondheim, dove Liv trascorse la sua infanzia, crescendo tra i libri grazie all’influenza della madre che lavorava come libraia.
Gli inizi: dal teatro al cinema
La passione per la letteratura non fece che avvicinarla sempre più al mondo della recitazione e, nonostante il dissenso della famiglia, Liv Ullmann iniziò da giovanissima lezioni di teatro. Dapprima, agli inizi degli anni Cinquanta, seguì dei corsi a Londra, per poi tornare in Norvegia, ad Oslo, dove esordì sul palcoscenico. Diversi sono stati gli spettacoli teatrali a cui l’esordiente attrice prese parte, facendosi notare in particolar modo per il ruolo da protagonista ne Il diario di Anna Frank nel 1957, dando prova delle sue grandi doti interpretative. Seguirono poi Amleto (1959), Kristin Lavransdater (1959), Faust (1963), Romeo e Giulietta (1964) e Giovanna d’Arco (1965).
Già nel 1957, inoltre, Liv Ullmann esordì sul grande schermo in Fjols til fjells, film norvegese non noto in Italia ma che in patria ottenne grande successo, tanto da essere considerato uno dei film più importanti dell’epoca. Diretto da Edith Carlmar, il film rappresentava il debutto della regista nel genere della commedia, considerando che sino ad allora la Carlmar si era affermata per le sue pellicole drammatiche e di critica sociale, con particolare riguardo alle difficili condizioni vissute dalle donne. Fjols til fjells rappresenta ufficialmente il debutto cinematografico di Liv Ullmann, anche se l’attrice era relegata ad un ruolo di mera comparsa.
Seguirono così altri ruoli minori in piccole produzioni locali, tra cui ricordiamo The Wayward Girl (Ung Flukt, 1959), ancora una volta diretto da Edith Carlmar e in cui Liv ottenne un ruolo da co-protagonista; Tonny (1962) di Nils R. Müller e Per Gjersøe; De kalte ham Skarven (1965) diretto da Wilfred Breistrand e Erik Folke Gustavson.
Durante gli stessi anni, nel 1960, Liv Ullmann sposò Gappe Stang, uno psichiatra con cui il matrimonio ebbe vita breve: i due divorziarono nel 1965 a causa di una delle relazioni più chiacchierate del panorama cinematografico di quegli anni, quella tra Liv Ullmann e l’immenso regista Ingmar Bergman.
Liv e Ingmar
Dopo una serie di ruoli in pellicole minori, Liv Ullmann venne notata da uno dei più grandi registi di tutti i tempi, Ingmar Bergman, che la scritturò immediatamente per il ruolo di co-protagonista di uno dei suoi film più acclamati, Persona (1966), che segnò ufficialmente l’inizio di un longevo sodalizio artistico e che cambiò per sempre la vita di entrambi.
Tutto ebbe inizio grazie a Bibi Andersson, attrice svedese e storica collaboratrice di Ingmar Bergman, che ricordiamo per ruoli come Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957) e Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957), oltre che per lo stesso Persona. La Andersson aveva intrattenuto una relazione sentimentale con il noto regista ma solo per breve tempo, per poi tornare ad un rapporto strettamente professionale ed amicale.
Negli stessi anni, Bibi conobbe Liv Ullmann sul set di un film norvegese e le due legarono immediatamente, diventando grandi amiche. Nel 1964, Liv raggiunse Bibi in Svezia per un breve soggiorno e, camminando per strada, le due si imbatterono in Ingmar Bergman. Quest’ultimo rimase immediatamente colpito da Liv Ullmann e le chiese, in quell’occasione, se lei fosse interessata a prendere parte al suo prossimo film. L’attrice ne fu immediatamente entusiasta: nonostante allora non esistesse alcuno script della pellicola lei accettò ad occhi chiusi, data la profonda ammirazione nutrita nei confronti di Bergman.
Ai tempi, Ingmar Bergman aveva intenzione di realizzare un’altra pellicola ma, poco tempo dopo l’incontro con le due attrici, il regista ebbe alcuni problemi di salute e finì in ospedale. Durante la sua permanenza in quel luogo, Ingmar fu colpito da una fotografia che vedeva insieme Bibi Andersson e Liv Ullmann, che avrebbe assolutamente voluto vedere recitare l’una accanto all’altra nel suo prossimo lavoro. Fu così che in ospedale, dopo un blocco artistico iniziale, si cimentò nella stesura del primo script di Persona, scritto in soli quattordici giorni.
Persona
Persona può considerarsi il capolavoro assoluto del regista Ingmar Bergman, nonché il suo titolo più sperimentale, espressione dei pensieri dello stesso autore. La pellicola segue la complessa relazione tra l’infermiera Alma (Bibi Andersson) e l’attrice Elisabeth (Liv Ullmann). Quest’ultima viene ricoverata in un ospedale psichiatrico perché improvvisamente si è chiusa in un assoluto mutismo, senza che però ciò fosse dovuto ad una particolare condizione patologica. Alma invita Elisabeth presso la sua casa al mare per trascorrere un periodo di riposo e recupero e lì il rapporto tra le due si consolida: Alma vede nell’attrice una perfetta interlocutrice aperta all’ascolto delle vicende sempre più intime raccontate dall’infermiera. Le due protagoniste finiscono per identificarsi l’una nell’altra, sino ad un momento di rottura.
Persona è un’opera immensa e complessa, capace di proporre un’analisi della psiche umana nelle sue più diverse sfaccettature, senza mancare di un’eleganza e di una ricercatezza stilistica del tutto fuori dall’ordinario. Il film è un’operazione meta-cinematografica, a partire dalle prime immagini: uno schermo, la pellicola che si brucia ed ulteriori sottigliezze tecniche.
Innegabile poi il carattere surrealista di Persona, molto evidente in particolare nelle ultime sequenze sempre più oniriche, laddove tale corrente artistica si è da sempre prestata come miglior mezzo per esprimere l’inconscio umano. Diverse sono le citazioni al mondo letterario, artistico e cinematografico: tra queste spicca il riferimento al cinema di Buñuel, padre del surrealismo nella settima arte; e ancora una chiara citazione è rivolta a Ėjzenštejn e alla sua tesi sul montaggio, secondo cui proporre immagini forti ed inaspettate può essere utile per richiamare l’attenzione dello spettatore, come accade nella stessa pellicola di Bergman, dove immagini violente e dirette vengono mostrate senza alcun contesto.
A tal proposito, la stessa essenzialità delle scenografie e delle immagini è funzionale a richiamare l’attenzione su quanto accade nella psiche delle due donne, protagoniste di frequenti primi piani sapientemente realizzati grazie alla fotografia di rara bellezza di Sven Nykvist (direttore della fotografia).
Lo stesso titolo, Persona, è evocativo del significato del film, facendo riferimento alla denominazione latina della maschera teatrale. Possiamo così intuire il dilemma pirandelliano dinanzi a cui la stessa attrice si è ritrovata nel corso della sua carriera: si è ciò che si è o ciò che appare? La questione esistenziale pone le protagoniste dinanzi a scelte difficili, complici le pressioni sociali e l’esigenza di conformità per essere accettati. Con ciò si spiega il mutismo di Elisabeth, rifugiatasi nella non azione, come si evince da una scena chiave della pellicola:
“Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità.”
Nonostante i problemi di censura riscontrati, Persona ebbe un incredibile successo e lanciò definitivamente Liv Ullmann sul grande schermo. La realizzazione del film non fu particolarmente semplice. Liv inizialmente non aveva capito in cosa consistesse la pellicola ma, in qualche modo, sentiva di averne colto l’essenza. I primi quattordici giorni di riprese furono molto sofferti: queste avevano avuto inizio in uno studio a Stoccolma ma Liv era molto timida e Bibi era in difficoltà a causa delle molte battute che le spettavano. Dato il clima generale non molto piacevole, Ingmar Bergman decise di spostare la lavorazione di Persona sull’isola di Fårö, dove in passato aveva già girato Come in uno specchio (Såsom i en spegel, 1961).
L’idea di trasferirsi su quell’isola fu illuminante, si trattava di un luogo fonte di grande ispirazione, tanto che il regista aveva poi deciso di stabilirvisi. Liv Ullmann ricorda quell’estate di riprese come il periodo più felice della sua vita, nessun’altra estate era stata e sarà mai come quella vissuta su quel set: fu in quell’occasione che tra Liv ed Ingmar scattò la scintilla.
Liv Ullmann ricorda che tra un take e l’altro era solita leggere qualche libro e, non appena alzava lo sguardo da quelle pagine, si rendeva conto che Ingmar Bergman la stava guardando. I giorni trascorsi su quell’isola sono intrisi dalla gioia più pura che l’attrice potesse provare. Lei stessa ha raccontato che, in quei giorni, si sentiva come se fosse tornata bambina, faceva delle lunghe passeggiate sulla sabbia e, addirittura, Liv ed il resto della troupe giocavano a seppellire dei soldi qui e lì sull’isola, quasi come se temessero di diventare improvvisamente poveri e quei pochi spiccioli avrebbero rappresentato la loro salvezza.
In occasione di un’intervista entrambe le attrici hanno espresso le loro difficoltà su quei ruoli da loro interpretati: se da un lato Bibi Andersson rappresentava l’antitesi di un’attrice, dall’altro Liv Ullmann era costretta a non parlare affatto e, da che lei stessa riteneva che questo le avrebbe reso il tutto più semplice, considerando la sua timidezza, in realtà si è rivelato un ruolo estremamente complesso. Alla domanda “Com’è essere diretti da Ingmar Bergman?” Liv rispose:
“Beh, posso dire che ero terribilmente spaventata. Innanzitutto, l’ho sempre ammirato molto come regista e ho sempre sperato di essere in un suo film. Ma poi ho sentito tante cose terribili su quanto fosse diabolico e raccapricciante. Ed essendo silenziosa e coscienziosa, ho pensato che sarebbe stato terribile se lui avesse dovuto conoscermi durante le riprese e avrei preferito tornare a casa. Ma ho scoperto che non avevo mai lavorato con un regista che ascoltasse con così tanto calore e comprensione cosa un attore pensa del suo ruolo e usa ciò che gli attori hanno dentro. […] Penso che lavorare con Ingmar Bergman sia qualcosa che ogni attore dovrebbe fare”.
Al termine delle riprese Ingmar Bergman, seduto sugli scogli con Liv, le confessò di averla sognata quella notte e che era giunto alla conclusione che loro due fossero “dolorosamente connessi” (“You and I are painfully connected”). Sembrò una vera e propria dichiarazione d’amore che, soltanto negli anni, Liv comprese appieno: non si trattava tanto di un legame sentimentale, ma di un qualcosa di più profondo e che ben si rifletteva nell’ambito lavorativo, dove l’attrice era divenuta l’alter ego femminile del regista, attraverso cui quest’ultimo era in grado di comunicare ed esprimere i suoi sentimenti e pensieri più reconditi.
“Mi sentivo la versione femminile di Ingmar; in Persona, ero lui in quel momento della sua vita: solitario e spaventato… Non ne abbiamo mai parlato”.
Quando fu girato Persona Liv Ullmann aveva solo 25 anni, mentre lui ne aveva 46: si trattava di una differenza di venti anni, inoltre erano entrambi già sposati, per cui una storia d’amore tra i due sembrava pressocchè impossibile. Proprio per questo motivo lei scappò in Norvegia non appena terminarono le riprese, tentando di evitare quella che già si presentava essere una relazione problematica.
La sua fuga però si rivelò futile: Ingmar Bergman la raggiunse in Norvegia, cercandola e chiedendo informazioni ai suoi conoscenti ed insistendo che lui e Liv dovessero stare assolutamente insieme. L’attrice cedette ed ascoltò il suo cuore, decise di avventurarsi in quella intensa relazione, nonostante i timori iniziali. Liv era sposata con uno psichiatra ed era molto preoccupata di riferirgli quanto fosse accaduto sull’isola di Fårö e di lasciarlo.
Le sue preoccupazioni erano in particolar modo rivolte alla suocera che, con quattro figli maschi, rivedeva in Liv Ullmann la figlia che non aveva mai avuto. La donna però accolse tranquillamente la notizia del divorzio, affermando che, fin quando Liv fosse stata felice, lo sarebbe stata anche lei. Dal canto suo, anche Ingmar Bergman si era trovato dinanzi ad alcune difficoltà: non soltanto era sposato, ma sua moglie era in dolce attesa.
L’amore tra i due era però così coinvolgente da permettere loro di superare ogni ostacolo e così Liv e Ingmar decisero di stabilirsi presso la magica isola di Fårö, inizialmente un nido d’amore, poi una vera e propria prigione.
“Io cercavo l’assoluta sicurezza, protezione e un grande bisogno di appartenenza. Lui cercava una madre, braccia calorose che si aprissero a lui senza complicazioni. Chissà se il nostro amore nacque nella solitudine che entrambi avevamo conosciuto prima. La sua fame di compagnia era insaziabile, poi la sua fame divenne una necessità vitale per me”.
Nel 1966 Liv Ullmann divenne madre di Linn Ullmann. Dato che Liv e Ingmar non erano sposati, l’attrice decise di dare il suo cognome alla bambina, con cui svilupperà un rapporto particolarmente intenso. Linn prese parte ad alcuni film del padre ed oggi è un’affermata giornalista.
Fårö, dal nido d’amore ad una prigione
Ingmar Bergman aveva costruito la propria dimora sulla fredda isola di Fårö. Se dapprima la casa era soltanto un rifugio dove il regista si recava saltuariamente, questa divenne successivamente l’abitazione stabile della nuova coppia, un vero e proprio nido d’amore dove i due potevano vivere insieme senza che qualcuno potesse disturbare la loro quiete. La casa sull’isola cambiò la loro vita, che in quel periodo quasi sembrava un sogno.
Quell’idillio era però destinato a spezzarsi molto in fretta e, già dopo i primi mesi di convivenza, Liv Ullmann si rese conto dell’esigenza di solitudine di Ingmar Bergman, tanto da portare quest’ultimo ad isolarsi completamente e a non volere che vi fossero altri visitatori. L’estate successiva il regista costruì un grande muro di pietra attorno alla casa, creando una sorta di fortezza ed impedendo che Liv si allontanasse da lì e che dunque interpretasse film diretti da altri che non fossero lui. Proprio in quel periodo i due realizzarono insieme due film: L’ora del lupo (Vargtimmen) e La vergogna (Skammen), entrambi del 1968.
L’ora del lupo
L’ora del lupo nasce da un manoscritto di Ingmar Bergman intitolato I mangiatori d’uomini. Il film segue la storia di un uomo, interpretato da Max von Sydow, che vive in un luogo isolato dal mondo, solo con sua moglie, interpretata da Liv Ullmann. L’uomo finisce per rifugiarsi sempre più nel suo mondo immaginario, sviluppando una patologia tale da non permettergli di distinguere la realtà dall’immaginazione e mettendo a rischio la vita di sua moglie.
Le riprese sono state realizzate presso una località svedese che ricordava in qualche modo l’isola di Fårö, presentando quella condizione di isolamento vissuta dalla coppia e quell’esigenza di solitudine che tanto bramava lo stesso regista.
La vergogna
La vergogna vede una coppia protagonista rifugiata dalla guerra su un’isola, anche se ben presto i due dovranno interfacciarsi con gli orrori bellici. Ancora una volta le riprese si svolsero sull’isola di Fårö e la coppia di protagonisti non era altro che un ulteriore riferimento a Liv Ullmann e Ingmar Bergman, come ormai accadeva in tutte le opere dell’autore.
Liv Ullmann ricorda quel periodo di riprese particolarmente estenuante a causa della prigionia presso l’isola di Bergman. L’unico giorno libero era il mercoledì quando, mentre il regista restava in casa, Liv passava del tempo con il resto della crew.
Seguì poi Passione (1969), opera meta-cinematografica sempre diretta da Ingmar Bergman, con protagonisti i suoi attori feticcio, tra cui Liv Ullmann.
Nel frattempo la gelosia di Ingmar era sempre maggiore e Liv riusciva ad esprimersi soltanto attraverso i suoi ruoli: la recitazione era divenuta una valvola di sfogo, dove l’attrice poteva scaricare tutta la rabbia e la tensione accumulate da quella violenza psicologica alla base di un rapporto diventato malsano. Liv ha raccontato in alcune interviste e, in particolare, in un documentario dedicato alla sua relazione col regista (Liv & Ingmar), che quest’ultimo era costantemente arrabbiato nei suoi confronti, quasi crudele. Soltanto col tempo l’attrice imparò a non aver paura di lui perché si accorse delle sue insicurezze, andando oltre l’ingiustizia e la violenza.
Liv Ullmann ha combattuto a lungo per tenere in piedi la relazione con Ingmar Bergman: non era più cieca dinanzi alle sue colpe e debolezze come lo era all’inizio, ma c’era certamente una maggiore comprensione e rispetto nei suoi confronti. Nonostante i frequenti tentativi di mantenere in vita quella relazione, anche e soprattutto per il bene della bambina, fu tutto vano e, nel 1969, Liv lasciò definitivamente il regista.
Si trattò di una separazione molto dolorosa e quasi cercarono di non darvi peso, fingendo che Liv stesse facendo i bagagli soltanto per una breve visita in Norvegia. Liv Ullmann lasciò l’isola di Fårö con un grande bagaglio emotivo, carico di tutte le esperienze belle e brutte vissute al fianco del regista. L’attrice ricorda ancora il momento in cui sbarcò dall’aereo in Norvegia: c’erano tutte le sue amiche ad accoglierla, tra cui Bibi Andersson, e insieme trascorsero quella notte tra vino e chiacchiere, offrendo conforto alla giovane Ullmann.
La storia d’amore tra Liv Ullmann e Ingmar Bergman è stata in realtà molto breve, durata soli cinque anni, ma è stata così intensa e significativa da cambiare in modo irreversibile la vita di entrambi. Inutile dire che i giornalisti non diedero pace a nessuno dei due e ogni intervista girava attorno allo stesso argomento: la loro relazione e il modo in cui si era conclusa, recando gravi sofferenze ad entrambi, le cui cicatrici erano ancora fresche. Dalla loro rottura nacque però uno splendido rapporto d’amicizia, uno dei più longevi che si sia mai visto nella storia del cinema e che terminerà soltanto con la morte del regista.
Dopo Bergman
Tornata in Norvegia, interpretò Karl e Kristina di Jan Troell (1970). Il film riscosse ampio successo, in particolare grazie alla splendida interpretazione di Liv Ullmann che addirittura le valse la prima nomination agli Oscar.
Proprio grazie a questa candidatura l’agente di Liv Ullmann convinse quest’ultima ad uscire dalla propria patria per diventare un’attrice di fama internazionale. Fu così che, negli anni Settanta, la donna fu protagonista di alcune pellicole statunitensi, senza mai abbandonare il teatro. L’attrice riuscì ad affermarsi ad Hollywood senza particolari difficoltà e in molti la consideravano come la nuova Greta Garbo.
Dal canto suo, Ingmar Bergman continuava a supportare il suo lavoro, tanto che si recò a New York per assistere al debutto di Liv Ullman sui palchi di Broadway, nello spettacolo A Doll’s House. Il regista se ne andò il giorno dopo. Liv si è sempre interrogata sul perché Ingmar fosse stato disposto a volare fino in America soltanto per una serata, quando lui odiava prendere l’aereo e viaggiare.
Di quegli anni ricordiamo La papessa Giovanna (Pope Joan, 1971), diretto da Michael Anderson. Dopodiché Liv Ullmann tornò a recitare per Ingmar Bergman. Il primo film che rivide nuovamente insieme i due è stato Sussurri e Grida (Viskningar och rop, 1972), un’opera intensa e cruda, dai colori vividi e dalla splendida fotografia da Premio Oscar di Sven Nykvist.
Fu poi la volta di Orizzonte perduto (Lost Horizon, 1973) di Charles Jarrot. Poi ancora con Bergman, Scene da un matrimonio (1973), per il quale Liv Ullmann vinse un David di Donatello e che forse più di ogni altro film mette in scena il rapporto disfunzionale che c’era stato tra Liv e Ingmar.
È interessante notare come la relazione tra i due ha influenzato l’intera filmografia del regista: se dapprima le opere di Bergman esploravano la fede, la perdita di quest’ultima e l’angoscia esistenziale, i film successivi a Liv parlavano di crisi di relazioni personali e travagliate, catastrofi private rapportate ai drammi politici e sociali.
Successivamente, l’attrice ha lavorato per altri registi, in particolare ricordiamo titoli quali La signora a 40 carati (40 Carats, 1963) di Milton Katselas; Una donna chiamata moglie (Zandy’s Bride, 1974) di nuovo di Jan Troell; La rinuncia (The Abdication, 1974) di Anthony Harvey; Léonor (1975) di Juan Luis Buñuel.
Nel 1976 Liv Ullmann tornò a collaborare con l’amico Ingmar Bergman in L’immagine allo specchio (Ansikte mot ansikte), ruolo per il quale l’attrice ottenne la sua seconda candidatura agli Oscar. Nello stesso anno l’attrice pubblicò il suo primo libro autobiografico, in Italia conosciuto col titolo Cambiare (Changing). Seguì Quell’ultimo ponte (A Bridge Too Far, 1977) di Richard Attenborough e poi, di nuovo con Ingmar Bergman, L’uovo del serpente (The Serpent’s Egg, 1977).
Sinfonia d’autunno
Fu poi la volta di Sinfonia d’autunno (Autumn Sonata, 1978), l’ultimo film diretto da Ingmar Bergman in cui recitò Liv Ullmann, accanto ad una straordinaria Ingrid Bergman. Sinfonia d’autunno racconta del rapporto madre-figlia come solo il regista svedese avrebbe potuto illustrare: un rapporto complesso dove la madre è tormentata dal senso di colpa per essere stata assente durante l’infanzia della figlia, perché troppo dedita alla carriera da pianista.
La lavorazione del film fu molto travagliata per entrambe le attrici protagoniste. Sia Liv che Ingrid si rivedevano molto nel ruolo materno così come scritto dal regista. Ingrid Bergman interpretava la madre protagonista ed il ruolo sembrava essere perfettamente cucito su di lei in quanto donna sempre dedita alla propria carriera, tanto da sacrificare più volte la famiglia. In particolare, Ingrid rivide in Liv Ullmann la sua primogenita Pia, abbandonata da bambina in America per seguire i suoi sogni lavorativi.
Dal canto suo, anche Liv Ullman ha sempre pensato che Sinfonia d’autunno fosse ispirato al suo rapporto con la figlia Linn (che peraltro interpretò Eva da bambina):
“Ingmar ha scritto Sinfonia d’autunno pensando a noi. Io interpreto una quarantenne che incolpa la madre per come è andata la sua vita. Ingrid Bergman – la madre – è una pianista famosa, spesso assente. Siamo state molto vicine io e Linn, poi abbiamo avuto qualche difficoltà”.
A complicare ulteriormente le riprese furono gli scontri continui tra Ingrid Bergman ed il regista. L’attrice voleva avere potere sulle sceneggiature da lei interpretate e perciò varie sono state le discussioni con il regista per la stessa ragione.
Liv Ullmann ha raccontato in diverse interviste qualche aneddoto sul rapporto tra Ingrid e Ingmar Bergman. L’attrice era forse l’unica donna che fosse mai riuscita a tenere testa al regista. Ad esempio, Liv ha dichiarato in un’intervista che il mercoledì, dopo le riprese, tutto il cast e la crew dovevano vedere un film deciso da Ingmar Bergman, nonostante la stanchezza dopo le lunghe giornate lavorative. Ingrid ebbe il coraggio di alzarsi ed andarsene e proprio per tale forza Liv Ullmann ammirava profondamente la sua collega, con cui strinse un bellissimo rapporto.
Tra alti e bassi venne fuori un capolavoro, un’opera di grande intensità come intense sono state le interpretazioni delle due attrici protagoniste.
Gli ultimi film: la parentesi italiana e la spinta umanitaria
Successivamente Liv Ullmann recitò in diverse pellicole, più o meno note, quali Gli amori di Richard (Richard’s Things, 1980) di nuovo di Anthony Harvey; il film TV Prigioniero senza nome (1983) di Linda Yellen; Mosse pericolose (La diagonale du fou, 1984) di Richard Dembo; Il ragazzo della baia (The Bay Boy, 1984) di Daniel Petrie. Nello stesso anno pubblicò anche il suo secondo libro autobiografico, Scelte.
Nel 1985 Liv Ullmann ebbe poi l’occasione di collaborare con Mario Monicelli, in Italia, nel film Speriamo che sia femmina. La breve parentesi italiana dell’attrice fu particolarmente significativa per lei, che sin da piccola aveva provato grande interesse nei confronti del cinema nostrano e, come dichiarato in diverse occasioni, un suo ricordo d’infanzia è proprio legato ad un film italiano. Da piccola vide Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, uno dei suoi film preferiti e che forse più di ogni altro titolo le ha aperto gli occhi sulle condizioni di vita in cui altri possono versare:
“C’era gente molto povera che nessuno aiutava e che poi, per miracolo, andava verso una vita migliore, dove c’è una dignità umana superiore. Bergman diceva sempre: “Quello che mi spaventa di più è l’indifferenza della gente, ho paura che dimentichiamo la nostra umanità”. Per questo nei suoi film c’erano atmosfere cupe e fredde: riflettevano il suo timore più grande”.
In parte, fu proprio grazie a questa pellicola che Liv Ullmann sviluppò un forte senso umanitario. Sul finire degli anni Ottanta l’attrice si recò come volontaria presso un campo di rifugiati ad Hong Kong e, profondamente colpita dalle condizioni disumane in cui erano costrette a vivere quelle persone, decise di fare qualcosa di concreto al riguardo. Fu così che, nel 1989, Liv Ullman, insieme con Catherine O’Neill, Susan Forbes Martin e Susan Alberti, fondò la Women’s Refugee Commission, un’associazione che protegge donne e bambini rifugiati nelle aree colpite da crisi e conflitti.
L’Italia rappresenta un luogo importante per Liv Ullmann anche per un’altra ragione: fu proprio a Roma che l’attrice si sposò per la seconda volta, con Donald Saunders, il suo attuale marito. Poi, nel 1986, l’attrice prese parte ad un’altra produzione italiana, Mosca addio, di Mauro Bolognini.
Nel 1987 recitò in Gaby – una storia vera (Gaby: A True Story) di Luis Mandoki; tornò poi a lavorare con Mauro Bolognini nella miniserie televisiva Gli indifferenti (1988). Infine, gli ultimi film interpretati da Liv Ullmann sono stati: Il bue (Oxen, 1991), diretto da Sven Nykvist, che sino ad allora si era affermato come fedele direttore della fotografia di Ingmar Bergman; Drømspel (1994) di Unni Straume e, da ultimo, Sarabanda, film TV del 2003 che ha visto tornare al lavoro la coppia Ingmar Bergman e Liv Ullmann.
Dalla recitazione alla regia
Dagli anni Novanta in poi Liv Ullmann si è dedicata principalmente alla regia. Il primo film che ha segnato il debutto da regista della donna è stato Sofie (1992), con il quale ottenne un discreto successo. Apprezzato al botteghino fu poi il suo adattamento cinematografico di Kristin Lavransdatter, tratto dalla trilogia di romanzi della scrittrice Premio Nobel Sigrid Undset.
Nel 1995 Liv Ullmann prese parte al film Lumière and Company, diretto da diversi registi. È un progetto di Sarah Moon che, per celebrare il centenario della nascita del cinema, affidò a quarantuno registi di fama internazionale la cinepresa originale dei fratelli Lumière affinché ognuno realizzasse un documento cinematografico rispettando alcune restrizioni tecniche: durata massima di cinquantadue secondi, sonoro asincrono e non più di tre inquadrature. Queste regole furono però violate da alcuni, ovvero Peter Greenaway e David Lynch.
Poi, nel 1996, Liv Ullmann si cimentò nella regia di Conversazioni private (Enskilda Samtal), la cui sceneggiatura è stata affidata a Ingmar Bergman. Sempre di quest’ultimo è poi lo script de L’infedele (Trolösa, 2000), quarto film da regista di Liv Ullmann ampiamente apprezzato dalla critica:
“Liv Ullmann si conferma l’erede cinematografica del suo regista prediletto, Ingmar Bergman. Non solo perché la sceneggiatura è scritta dal maestro svedese (e quindi ripropone temi e stilemi del suo cinema), ma perché dalla direzione degli attori alla messinscena, tutto si dispone nell’ordine tipicamente bergmaniano dei corpi e degli spazi che disegnano destini e rivelano le disposizioni interiori dei personaggi, nella prospettiva di un cinema che è concepito come stratificazione di tempi e storie, sentimenti e coscienza.” (Ezio Alberione)
Nel 2001 Liv Ullmann fu invitata a prendere parte ad una puntata di Sex and the City. L’attrice ne era entusiasta, si trattava infatti della sua serie preferita in cui lei stessa rivedeva il rapporto con le sue amiche, tuttavia decise di non accettare l’offerta perché non era particolarmente convinta della scrittura del suo ruolo.
La morte di Ingmar Bergman
Nonostante i grandi traguardi raggiunti nel corso della sua vita e i differenti lavori da attrice e regista, non c’è un’intervista in cui non le venga chiesto di Ingmar Bergman. Liv quasi ne soffriva e certamente ne era stanca. Quando ne parlò con il regista, lui le rispose che non avrebbe dovuto dar peso a queste cose e che lei era il suo Stradivari, un vero e proprio simbolo di eccellenza: questo fu senz’altro il miglior complimento che l’attrice avesse mai ricevuto. La scomparsa di Bergman, nel 2007, ha lasciato un vuoto incolmabile nella vita dell’attrice.
Liv racconta che quel giorno era presente, sentiva di dover andare a fargli visita sull’isola di Fårö, dove il regista si era ormai ritirato definitivamente a seguito della scomparsa di sua moglie. I due trascorsero una lieta giornata insieme presso la casa che un tempo era stata il loro nido d’amore. Il regista morì quella stessa notte.
Gli ultimi anni: l’Oscar alla carriera
L’ultimo film, fino ad oggi, che l’ha vista nei panni di regista è stato Miss Julie (2014), con protagonista Jessica Chastain, un film in costume, tratto dall’omonima opera del 1888, che è stato realizzato con tecnica tradizionale non digitale, come è evidente soprattutto dai vividi colori che caratterizzano la pellicola.
Liv Ullmann si è sempre mostrata, sin dagli esordi, come una donna di grande talento e sensibilità. I ruoli da lei interpretati sono sempre stati di donne forti, emancipate, o ancora in crisi e sofferenti, spesso dando vita a personaggi complessi e contraddittori e mettendo in scena l’anima umana con una naturalezza rara. Anche da regista, protagoniste delle sue storie continuano ad essere donne libere e coraggiose in conflitto con una società ottusa e maschilista.
Prossima agli ottant’anni, Liv Ullmann è al momento impegnata nella stesura del suo prossimo libro, The Blue Hour, sulle opportunità che la vita ha da offrire alle donne della sua età. A coronamento di una carriera straordinaria, Liv Ullmann ha conseguito il Premio Oscar alla carriera nell’edizione del 2022, affiancata da altri grandi nomi quali Samuel L. Jackson e Danny Glover. L’attrice e regista è stata accolta sul palco del Dolby Theatre da John Lithgow, che l’ha descritta come “un’interprete raffinata e meravigliosamente empatica”.