Grand Hotel (Id.)
Regia: Edmund Goulding; soggetto: dallo spettacolo teatrale di William A. Drake e dal romanzo Menschen im Hotel di Vicki Baum; sceneggiatura: William A. Drake, Vicki Baum, Béla Balázs; fotografia (b/n): William H. Daniels; scenografia: Cedric Gibbons; costumi: Adrian; trucco: Cecil Holland; montaggio: Blanche Sewell; interpreti: Greta Garbo (la ballerina madame Gruzinskaja), John Barrymore (Barone Felix von Geigern), Joan Crawford (la dattilografa Flaemmchen), Lionel Barrymore (l’impiegato Otto Kringelein), Wallace Beery (l’industriale Preysing), Jean Hersholt (il portiere Senf), Lewis Stone (Dr. Otternschlag), Robert McWade (Meierheim), Purnell B. Pratt (Zinnowitz), Rafaela Ottiano (Suzette), Ferdinand Gottschalk (Pimenov), Morgan Wallace (autista), Tully Marshall (Gestenkorn), Frank Conroy (Rohna), Edwin Maxwell (Dr. Waitz); produzione: Irving G. Thalberg per MGM; origine: USA -1932; durata: 112′.
“Grand Hotel: gente che va, gente che viene…il tutto senza alcun senso.”
Il Dottor Ottenschlag
Trama
Berlino, 1928. Nel lussuoso albergo teatro della vicenda si incontrano molti personaggi, i cui destini s’intrecciano: la ballerina russa Gruzinskaja (Greta Garbo), stella ormai in declino, il barone Geigern (J. Barrymore) decaduto a topo d’albergo, il ricco imprenditore Preysing (Beery), la sua segretaria Flaemmchen (J. Crawford) e il modesto contabile Otto Kringelein (L. Barrymore), malato incurabile. Tocca a quest’ultimo aprire i giochi, dichiarando che si propone di fare faville, visto il poco tempo che gli rimane da vivere. Entra in scena il barone che sceglie come vittima la sconsolata ballerina, che medita il suicidio. L’uomo s’introduce in camera sua e sta per fare man bassa dei gioielli di lei, quando la donna lo sorprende. Colto sul fatto, il ladro gentiluomo afferma di essersi introdotto di nascosto nella stanza perchè innamorato. Andrà a finire proprio così: i due amanti progettano di fuggire insieme a Mosca.
La Gruzinskaja, incoraggiata dal barone, ritorna a teatro dove la sua esibizione raccoglie un successo clamoroso e si prepara a partire per un breve periodo di vacanza che vorrebbe trascorrere sulle Alpi, in compagnia del suo nuovo amore. L’uomo però ha bisogno di soldi, avendo rinunciato a derubarla e non avendo cuore di sottrarre a Kringelein la sua vincita al tavolo da gioco, sapendolo in fin di vita. Geigern sceglie allora di rubare all’industriale Preysing, mentre questi sta tentando di sedurre Flaemmchen, ma viene sorpreso dall’uomo in flagrante e ucciso in uno scatto d’ira. Il mattino seguente il corpo del barone viene portato via da una uscita secondaria per non disturbare gli ospiti; Grusinskaya è raggiante per le prossime vacanze, nessuno del suo entourage ha avuto il coraggio di dirle la verità sulla tragedia; Preysing viene condotto in galera mentre l’intraprendente Flaemmchen ha deciso di accompagnare Kringelein a Parigi per allietare gli ultimi mesi che lo aspettano. Partiti gli ospiti, ne arrivano altri con nuove storie e forse nuovi drammi.
Una parata di stelle
Nel 1932 il trentatreenne Irving G. Thalberg è all’apice della propria carriera: giovane, audace (e cardiopatico purtroppo) ha scalato il colosso della Metro-Goldwyn-Mayer con le proprie forze, fino a diventare il delfino di Louis B. Mayer, grazie al proprio lavoro e all’abilità innata nell’intercettare i gusti del pubblico (non a caso lo ritrovi nel recente Mank di David Fincher). Grand Hotel è uno dei frutti più maturi delle sue intuizioni. Si occupa personalmente di reclutare le stelle del cinema più adatte a comporre il mosaico umano rappresentato nel film. Persuade Greta Garbo, allora ventisettenne ad accettare una parte per cui si sente troppo vecchia ed un partner con cui non aveva mai lavorato, quel John Barrymore che pur di apparirle accanto firma con la MGM un contratto per tre film. Wallace Beery ritiene il suo personaggio troppo sgradevole, ma Thalberg gli garantisce che sarà l’unico personaggio a poter parlare con accento tedesco, in armonia con l’ambientazione europea della storia. Joan Crawford stessa, dotata di un carattere spigoloso e indocile, viene ammansita con la possibilità di recitare con la Garbo la quale, alla fine delle riprese, si dirà dispiaciuta di non aver potuto condividere la scena con lei (le due protagoniste femminili non appaiono mai insieme per scelta del regista, nel timore che una potesse offuscare l’altra). Tutti questi grandi attori si calano nei personaggi in modo totale infondendo loro tratti distintivi della propria personalità in vesti che sembrano tagliate su misura per loro: la Garbo è una diva pretenziosa, John Barrymore un seduttore impenitente ma sempre al verde, Wallce Beery appare come un avido e burbero padrone, Joan Crawford è una giovane apparentemente servizievole ma in realtà intraprendente e calcolatrice. Grazie a una faraonica campagna pubblicitaria orchestrata dal suo demiurgo Grand Hotel riscuote consensi tra critica e spettatori disposti, pur di vederlo, ad accapigliarsi tra loro e a rispettare file chilometriche al botteghino. Il film di Goulding si presenta dunque da favorito nella corsa all’Oscar, alla pari con l’altro blockbuster del 1932: Il campione di King Vidor con Wallace Beery (ancora lui!).
Il racconto del redattore
La sera del 18 novembre 1932 l’elite di Hollywood si raduna all’ Ambassador Hotel di Los Angeles, per festeggiare i vincitori della quinta edizione degli Oscar, diventati in pochi anni i premi più ambiti del mondo. Per la prima volta è in concorso un ex pubblicitario di Chicago, che si è messo a produrre film d’animazione. Il suo nome è Walter Elias Disney, che quell’anno si porta a casa due statuette, una per il cortometraggio Fiori e Alberi e l’altra per aver creato Mickey Mouse, che in Italia conosciamo come Topolino. Un esordio non così sorprendente, vista la commissione dell’Academy per decidere l’assegnazione dei trofei (il suffragio universale è di là da venire), composta da Stan Laurel e Oliver Hardy che vincono per il cortometraggio comico Piano…forte, dall’attore Mack Sennett e da Walt e Roy Disney: la locuzione ‘conflitto d’interessi’ non è ancora stata inventata. Tra i finalisti troviamo due opere di Ernst Lubitsch (L’allegro tenente e Un’ora d’amore), un Mervyn LeRoy che accusa la stampa sensazionalistica con L’Ultima edizione a cinque stelle, l’esotico Shangai Express di Josef von Sternberg (vince per la fotografia) e il ritratto di famiglia intimistico Ragazzaccia di Frank Borzage (premiato per la regia e l’adattamento), oltre all’esordio di John Ford, Un popolo muore, con un medico interpretato da Ronald Colman inviato in un luogo dove è in atto un’epidemia e costretto a scegliere a chi somministrare il vaccino contro la letale malattia (se vi suona familiare è perchè lo è). Tra gli attori si verifica il primo caso di premio Oscar ex aequo: vincono Wallace Beery, pugile in declino che muore sul ring ne Il campione (targato MGM) e Fredric March, nel classico dell’horror Il dottor Jekyll (Paramount) di Rouben Mamoulian, tratto dal romanzo di Robert Louis Stevenson, nel quale una pozione trasforma il civile e gradevole medico nell’abominevole Mr. Hyde. Miglior attrice è incoronata Helen Hayes, protagonista del polpettone Il fallo di Madelon Claudet: già allora saturo di scene madri e moralismo, figuriamoci se rivisto oggi. Nella sfida finale per l’Oscar al miglior film la spunta quella macchina spettacolare perfettamente oliata che è proprio Grand Hotel che trova la sua ragione d’esistenza nel piacere al pubblico, strabiliato nel vedere tante stelle all’interno di un solo lungometraggio. La circostanza più curiosa è che nessuno degli interpreti sia premiato per il film.