Dopo quello dedicato ad Hillary Clinton prodotto da Hulu, Netflix decide di fornirci un altro ritratto di un’ex first lady, una delle più famose e amate forse, Michelle Obama.
Becoming – La mia storia, è il documentario prodotto dalla Higher Ground Prods (gestita proprio dagli Obama) e diretto da Nadia Hellgren, disponibile dal 6 maggio sulla piattaforma, che prende spunto dall’uscita dell’autobiografia di Michelle Obama.
Per promuovere l’uscita del libro, Michelle si è imbarcata in un tour che ha toccato 34 città degli Stati Uniti, partecipando a incontri di fronte a platee oceaniche; il documentario si apre con una delle prime presentazioni che Michelle fa del suo libro Becoming, quella che si svolge nella nativa Chicago e a cui partecipa una personalità televisiva del calibro di Oprah Winfrey.
Il tour promozionale del suo libro diventa il cuore del film: dai dibattiti in stadi ghermiti di persone con host di fama internazionale come Conan O’Brien e Reese Witherspoon e dagli incontri con il pubblico che si mette in fila per una stretta di mano ed una copia autografata, ci spostiamo e scopriamo Michelle nei dietro le quinte, nei momenti più intimi e tranquilli con i suoi familiari e in alcune interviste a cuore aperto con Nadia Hellgrenmoderati.
Il film ci mostra tanto, forse troppo per soli 89 minuti, firma copie nelle librerie, il backstage di questo tour epocale, gli incontri con la gente comune, racconti dei familiari e delle persone a lei più vicine.
La documentarista Nadia Hallgrem l’ha seguita passo passo e ci ha fornito uno sguardo vero e reale di quello che è stata ed è la vita della prima First Lady di colore nella storia, una donna eclettica, incredibilmente moderna non solo gusti musicali e nel modo di vestire, ma anche in quello di esprimersi e di porsi alla gente di ogni tipo.
A due anni dal giorno in cui ha lasciato gli sfarzi e i privilegi, racconta in modo ironico l’ultimo giorno trascorso in quella Casa e quella mattina quando ha dovuto svegliare di forza le sue figlie dicendogli
“sono arrivati i Trump, dobbiamo andare via”
In realtà, come lei stessa racconta, è stato un momento pieno di lacrime e singhiozzi, e mentre l’Air Force One si allontanava e portava gli Obama lontano da quegli 8 anni, Michelle racconta di aver pensato di quanto fosse stato difficile cercare di fare tutto alla perfezione.
Sì perché diventare First Lady così, da un giorno all’altro, trovarsi tutto d’un colpo ad essere al centro dell’attenzione, la famiglia più spiata dell’universo, ti cambia e ti carica di responsabilità.
“sembra di essere sparati in aria da un cannone… ogni battito di ciglia è sotto gli occhi di tutti”
L’idea di questo tour, nasce in realtà dalla voglia di normalità, e di riappropriarsi della sua identità, racconta la First Lady, ma l’affetto che la gente le dimostra, quello è sicuramente vero e genuino.
Elegante e mai inopportuna dal documentario ci accorgiamo di come questa donna abbia uno straordinario potere sulla gente, ha sempre una parola giusta per tutti, non è mai scontata, né ripetitiva.
Quando incontra i fans nelle librerie, si dimostra davvero interessata alla storia di chi le sta di fronte, ascolta la gente e la guarda dritta negli occhi dispensando consigli di ogni genere.
“…incontrare gente senza filtri, mi fa immedesimare in loro e mi fa restare ancorata alla realtà”
Questa voglia di normalità, per Michelle, non rappresenta un voler tornare indietro alla vita di prima, ma piuttosto un desiderio di cambiamento, uno sprone ad iniziare una nuova vita, completamente diversa.
Michelle si mette a nudo, così scopriamo che non si sentiva pronta a diventare madre, perciò ha rinunciato alle sue aspirazioni professionali per dedicarsi alla famiglia, perché sentiva di non farcela a stare dietro a tutto.
Ciascuno degli intervistati mette insieme un pezzo del puzzle che è il percorso di questa ragazza afroamericana cresciuta a Chicago, in una famiglia di modeste condizioni.
Figlia di una madre esigente
“che preferiva mio fratello”
e rispetto al quale, dice scherzosamente, nemmeno essere diventata la moglie del Presidente degli Stati Uniti,sembra essere abbastanza, e di un padre affetto da sclerosi multipla al quale lei era molto legata perché
“era un uomo capace di far sentire gli altri amati”
Michelle si abbandona ai racconti della sua infanzia e adolescenza, quando ha dovuto dimostrare di essere all’altezza, anche quando è stata inizialmente rifiutata dall’Università di Princeton perché “inadatta”.
A Princeton sarebbe seguita Harvard e poi la pratica come avvocato, e infine l’incontro fatale con Barack.
“Non ho mai voluto essere solo un’appendice ai suoi sogni”
dice Michelle, che descrive il loro matrimonio come basato sulla reciprocità, e non esita a rendere pubblico l’aver affrontato la terapia di coppia per imparare a
“essere felice senza aspettarmi che fosse mio marito a rendermi tale”.
È anche una donna che ha sofferto e patito la discriminazione, così come la sua famiglia d’origine
“la mia famiglia per alcuni era fuori posto”
E nonostante fosse una dei pochissimi studenti appartenenti ad una minoranza quando era a Princeton, anche lei ha provato sulla sua pelle cosa volesse dire essere discriminati quando una delle sue coinquiline andò via
“terrorizzata da tutto quel nero”
Anche se grazie alla famiglia che ha avuto, e agli insegnamenti ricevuti, non si è mai sentita invisibile e andare a studiare lì è stata una rivincita nei confronti di quanti non la reputavano all’altezza.
Michelle parla anche dei momenti difficili che ha dovuto affrontare durante la campagna elettorale, quando le sue parole, fraintese e travisate, le si rivoltavano contro come un bumerang. Ha dovuto perciò imparare a controllarsi, perché non sempre essere aperti e schietti paga; la sincerità alle volte crea più problemi che alleati.
“…ho dovuto aprire gli occhi ed imparare che la gente può essere anche altro oltre che buona, ed è pronta a pensare il peggio degli altri, e questo fa male.”
Dalle sue parole, emerge il ritratto di una donna molto pratica, poco interessata alle etichette, una Lady che, arrivata alla Casa Bianca, ha voluto cambiare quelle regole ritenute troppo “strette” come spogliare i domestici dello smoking e gli inservienti del compito di rifare i letti delle sue figlie
“le ragazze devono imparare a fare da sole”
Molte scelte apparivano quasi delle provocazioni, ma del resto tutta la famiglia rappresentava una provocazione per una parte del mondo, quella parte razzista e piena di pregiudizi.
Ed è qui che percepiamo anche la paura dettata dal fatto di aver occupato la Casa Bianca, essendo una famiglia nera, discendente da schiavi neri, in un Paese come gli Stati Uniti, in cui essere neri può anche essere un buon motivo per essere uccisi.
La speranza di Michelle era quella che la gente fosse più preparata ad un cambiamento del genere, ma quando sono arrivate le minacce, quella speranza si è trasformata in paura; ma Michelle è anche una donna di gran fede, che ha sempre trovato nella preghiera un valido alleato, e alla fine
“mezza America aveva paura di noi”
spiega rievocando la storica vittoria del marito.
A contare sono le facce delle persone, anzi, le storie (parola che ricorre in continuazione).
“ogni storia ha un suo valore”.
Michelle tocca, abbraccia, ascolta, si commuove, esulta; ha carisma da vendere ed è maledettamente ironica e divertente nel raccontarsi.
“un giorno, quando ero un giovane avvocato in uno studio legale, ho dovuto fare da mentore ad un giovanotto con uno strano nome e una voce da secchioncello che ha fatto subito colpo su di me”
Il tentativo di portare sul mercato qualcosa di coinvolgente e al tempo stesso originale e innovativo, che fornisse uno sguardo inedito sulla sua protagonista, sembra quindi sia riuscito, ma non tutti la vedono così.
Se da una parte infatti, il docufilm riesce a toccare tematiche interessanti e a mostrarci alcuni lati inediti di Michelle, dall’altra, assomiglia fin troppo a uno spot promozionale.
Molti infatti hanno ritenuto il film una sorta di mossa politica, uno spot promozionale, una probabile campagna per la vicepresidenza accanto all’anziano Joe Biden, auto-promozione politica.
Il film spiega bene la campagna elettorale permanente della famiglia Obama, ritrovatasi a essere il clan democratico più in prima linea contro Trump, e in effetti un velo di rabbia e delusione si percepisce nelle parole di Michelle:
“capisco quelli che hanno votato per Trump, i giovani, le donne, mi fanno pensare che ci sia qualcuno che crede che questo sia un gioco, e non solo in questa elezione, ma in tutte quelle di medio termine, Barak non otteneva la maggioranza che gli serviva perché la nostra gente non votava. Dopo tutto quel lavoro non si sono presi il disturbo di andare ai seggi. Per me è un trauma.”
Becoming – La mia storia fa parlare Michelle Obama in lunghe interviste personali, ma anche alcuni membri della sua famiglia – la madre, il fratello maggiore, le due figlie – e figure importanti della sua esperienza alla Casa Bianca: la guardia del corpo Carl Ray, la consulente politica Melissa Winter, la fashion stylist Meredith Koop. Abbiamo quindi la possibilità di conoscere Michelle anche dal punto di vista di chi le sta vicino nelle vita di tutti i giorni.
Questo saltare da un personaggio all’altro tuttavia, in alcuni mementi della narrazione, un po’ disturba perché è come n elemento di rottura.
Le situazioni e le immagini si susseguono sullo schermo troppo velocemente, spostandosi frettolosamente da momento all’altro e da un tema all’altro.
In più di un’occasione, ci si trova a pensare che avremmo voluto saperne di più su un determinato argomento, che avremmo voluto approfondire di più una determinata tematica.
Durante una delle presentazioni ad esempio, quando Michelle dichiara di aver fatto, insieme a Barak, un periodo di terapia di coppia, il racconto si interrompe quasi bruscamente, dimostrando si che alcuni problemi sono stati superati, ma non come.
È un peccato, perché spesso ciò che ci affascina dei documentari, è proprio il loro coraggio nel mostrare le zone d’ombra, gli ostacoli e le difficoltà che sono state affrontate e superate.
Molte situazioni, vengono solo accennate ma non approfondite.
Alla fine di tutto comunque, Michelle si dimostra un’anima giovane, che vuole continuare a lavorar con i giovani, amata e acclamata dai giovani.
Lontana da quella lente di ingrandimento che è la notorietà, vuole avere più spazio per fare quello che più le piace, ed è per questo che, notizia di pochi giorni, probabilmente non accetterà di concorrere per la Casa Bianca come vicepresidente nel ticket democratico con Joe Biden.
Grazie a questo libro Michelle ha avuto l’opportunità rara di vedere il mondo che la circonda, e rendersi conto che essere First Lady è stato
“il più grande onore della mia vita”
L’unico messaggio importante, che deve restare, è di speranza
“siate vulnerabili, ma non smettete mai di convincervi che la vostra storia vale, ed è importante”