Un’indagine sul business petrolifero nel corno d’Africa, che si trasforma in incubo e in lotta per la sopravvivenza
Finanziato e supportato dallo Swedish Film Institute, 438 Days (titolo originale 438 Dagar) racconta la storia del giornalista Martin Schibbye e del fotografo Johan Persson che furono arrestati nel luglio del 2011 con l’accusa di terrorismo. I due, sprezzanti del pericolo, stavano conducendo un’indagine per portare alla luce le dinamiche relative al commercio e all’estrazione del petrolio al confine tra l’Etiopia e la Somalia. L’intenzione era potersi rendere conto della reale situazione, andando oltre gli allarmismi che venivano diffusi e raccogliendo le testimonianza direttamente dalle popolazioni coinvolte.
Feriti e catturati dall’esercito etiope, i due furono condannati a ben undici anni di prigione per terrorismo, rinchiusi nella prigione etiope Kality e liberati nel 2012, a seguito di perdono giudiziale. Ma quest’esperienza ha acceso la luce dei riflettori su molto più di quanto era nelle intenzioni di partenza di Martin (Gustaf Skarsgård) e Johan (Matias Varela), i due infatti ebbero modo di vivere in prima persona le degradanti e disumane condizioni dei prigionieri etiopi, per non parlare della lacunosa giustizia che li aveva sottoposti ad un processo farsa. Rinchiusi in una cella veicolo di infezioni batteriche, con una lamiera sulle teste a far loro da tetto, cadenzate ed irragionevoli percosse, giorni che si ripetevano tutti uguali, riuscirono a tenersi stretta la più grande delle libertà in un simile contesto: non dimenticare chi erano, aggrapparsi alla propria identità.
E’ proprio Matias Varela, attore svedese di origini spagnole, diventato celebre per l’interpretazione di Jorge Salcedo in Narcos 3, a rivelare la locandina del film, diretto da Jesper Ganslandt, su cui troneggia il suo primo piano, accanto a quello di Gustaf Skarsgård.
https://www.instagram.com/p/BtO6mNKFfri/?utm_source=ig_web_copy_link
La sceneggiatura, opera di Peter Birro, è frutto dell’adattamento dell’autobiografia omonima in cui i protagonisti della vicenda hanno rivelato le torture subite e la disavventura che gli è quasi costata la vita.
Dopo essere tornati a casa, in una conferenza stampa emozionante, Martin Shibbye dichiarò: ‘Dopo aver trascorso 438 giorni come prigionieri di coscienza in un campo di prigionia dove non siamo stati in grado di dire quello che pensiamo o sentiamo, il sentimento che avvertiamo più forte oggi è la libertà puramente fisica dalle catene, senza aver ottenuto anche la libertà di espressione‘.
E’ dunque un’importante conquista la diffusione di un film di questo spessore che speriamo possa sensibilizzare anche a beneficio di quei reporter e giornalisti ancora prigionieri e che rischiano quotidianamente la vita per amore della verità e per far si che giunga a noi.
Credo che in esperienze dolorosissime quali ad esempio il carcere in genere ed in alcuni paesi in particolare, il cercare disperatamente di rimanere aggrappati alla propria identità, sia la sola ed unica possibilità. L’abitare un tempo sospeso ho idea, sia pesante ma doveroso per la salvezza. Appena uscirà vedrò il film.
Sono assolutamente d’accordo e penso che queste siano le storie che a maggior ragione devono essere raccontate !