Il leggendario produttore discografico, direttore d’orchestra, arrangiatore e musicista Quincy Jones è purtroppo venuto a mancare il 3 novembre all’età di 91 anni, lasciandoci un eredità musicale enorme.
Tra i suoi tanti successi, il più famoso è senza dubbio l’album Thriller di Michael Jackson che, con l’impressionante cifra di copie vendute che si stimano essere tra i 70 e i 100 milioni, è tutt’oggi (e così rimarrà) il disco più venduto di sempre.
Ma nel 1985 riuscì a portare a termine un ulteriore impresa leggendaria.
Riunire le maggiori superstar del momento e spingerle a collaborare “lasciando l’ego fuori dalla porta”.
We are the World
Probabilmente conoscerete tutti We are the World, più che una canzone, un operazione di beneficenza epocale che ha visto collaborare, tra i tanti, Michael Jackson, Lionel Richie, Bruce Springsteen, Bob Dylan e Cindy Lauper.
L’ispirazione principale dell’operazione è ovviamente il progetto britannico Band Aid, che vedeva riuniti molti artisti britannici, tra cui Tony Hadley, Sting e Phil Collins, per sensibilizzare sulla situazione delle popolazioni africane in difficoltà e cercare di raccogliere soldi per aiutarli.
Ed è solo dopo che parte la storia raccontata nel documentario We Are the World – La notte che ha cambiato il Pop (intitolato in originale con un molto più adatto The Greatest Night in Pop), con il racconto della volontà da cui è nato il brano, ovvero il fatto che fu un idea di Harry Belafonte, musicista afroamericano estremamente devoto alle cause umanitarie, con un velocissima menzione (se sbattete le palpebre ve la perdete) ai loro predecessori britannici, facendo già sentire un certo odore di autocelebrazione fine a se stessa nell’aria.
Il narratore principale della “più grande notte del pop” è il co-autore del brano, Lionel Richie, innegabilmente una delle figure chiave dell’operazione assieme a Michael Jackson, Harry Belafonte e Quincy Jones.
Purtroppo quella che poteva essere un incredibile storia, quasi da thriller, dell’impossibile impresa di riunire le più grandi icone del pop sotto lo stesso tetto per incidere un brano in una sola notte, diventa (come detto sopra) una autocelebrazione che sa di poco.
Ovviamente poter accedere a video inediti di questo momento storico per la cultura pop e poter entrare nel famoso studio che abbiamo visto nel videoclip è una sensazione elettrizzante, questo non può essere negato.
Ma proprio questa continua sensazione di potenziale sprecato rende il tutto un po’ frustrante.
Il tutto si riduce a una sequela di episodi sconnessi (quella volta che Cindy Lauper si dimenticò gli orecchini, quella volta che Bob Dylan espresse il suo disagio, ecc.) con poco focus su quello che era il fattore più interessante del tutto, ovvero che avevano le ore contate per portare a casa un brano degno, perchè tutte quelle icone sotto lo stesso tetto non le avresti mai più avute.
We are Quincy Jones’ Children
Se abbiamo un documentario con una storia assurda da raccontare lo dobbiamo a Quincy Jones.
L’idea di Lionel Richie era far registrare separatamente ad ognuno il proprio pezzo e poi montarli assieme, ma Quincy Jones si oppose alla cosa e disse che li avrebbe messi tutti sullo stesso palco e che avrebbero dovuto “cantare guardandosi negli occhi”.
Questo ha dato modo al tutto di diventare imprevedibile, perchè riunire superstar sotto lo stesso tetto voleva dire riunire grandi ego sotto lo stesso tetto.
Lascia l’ego fuori dalla porta
E’ il messaggio che il Nick Fury del Pop ha affisso fuori la porta dello studio di registrazione.
E infatti la difficoltà del riuscire a dirigere quello che in fin dei conti è un gruppo di solisti è tra le tematiche toccate nel documentario (merito che Lionel Richie spartisce tra lui e Quincy Jones, con quella sensazione di grande ego che permea tutto il documentario), ma sempre senza andare molto a fondo, forse per difficoltà dovute alla mancanza di materiale video o perchè non c’era una vera volontà di esplorare la cosa.
Alti e bassi anche nel finale, che ha un momento molto bello che vede un Lionel Richie rendersi conto di essere rimasto uno dei pochi testimoni di un era che è finita, ma che allo stesso tempo fa solo velocissime menzioni degli effetti che ha avuto l’operazione nel tempo e nell’immaginario, rendendo il tutto un po’ fine a se stesso e al solo racconto (insoddisfacente) di quella notte.
In generale è una visione piacevole e consigliata, non annoia mai ed è abbastanza interessante, soprattutto per i fan degli artisti coinvolti, ma che poteva dare molto di più e vive di un fatto che è molto più grande del modo in cui è stato raccontato.
Potete trovare il documentario su Netflix.