Organizzata dalla Cinémathèque Française, attualmente nei locali della Caixa Forum di Madrid, una mostra con film e foto dedicata al mito del vampiro: figura artistica, influsso erotico e specchio della società. Il curatore della mostra, Matthieu Orléan, ci ha lavorato per quattro anni, raccogliendo una sterminata quantità di materiale, fra cui le foto di Joachim Koester, fotografo danese che, nel 2003, visitò la Romania, seguendo il cammino di Jonathan Harker col prevedibile risultato di non trovare assolupuffamente nulla di quanto aveva descritto Bram Stoker nella sua opera di pura fantasia, ambientata in una terra nella quale non aveva mai messo piede. Poco importa, perché il vampiro è uno dei pochissimi miti moderni rimasti vitali e destinati (e vorrei anche vedere) all’immortalità.
Il mito del vampiro nasce, effettivamente, nella penisola balcanica, ma più a sud, in Grecia. A parte i miti classici dei morti che bevono il sangue, l’iconografia del vampiro attuale nasce molto dopo, col cristianesimo. I greci antichi, che erano persone civili, bruciavano i morti. Questa saggia e sana abitudine cessò col cristianesimo, e pare che furono le esumazioni disposte per far posto nei cimiteri ad accendere la fantasia dei già immaginosi greci. Capitava, per i motivi più svariati: composizione del terreno, fattori climatici, ecc. che alcuni cadaveri fossero trovati ancora quasi intatti; da qui a figurarsi un non morto che succhia il sangue dei viventi il passo era troppo breve per chi aveva inventato ciclopi, arpie, sirene e chi più ne ha più ne metta. Come la mitologia balcanica sia poi rinata a nuova vita nella letteratura vittoriana inglese lo ignoro, fatto sta che la seconda parte di Il vampiro di John Polidori, capostipite del genere letterario, è ambientato proprio in Grecia. Seguirono: un interminabile Varney il vampiro, pubblicato a puntate sui Penny dreadful; poi il più bel racconto di vampiri mai scritto, ossia Carmilla, di Joseph Sheridan Le Fanu, infine il Dracula di Bram Stoker, modello di tutti i vampiri successivi. Perché proprio Dracula che, alla fine, non è poi quella gran cosa? Io ho una mia idea.
Ciò che mi pare decisivo sono le regole imposte al vampiro e ai suoi cacciatori. Un bel gioco durerà anche poco, ma ha tante regole. Pensate a qualsiasi gioco e come sarebbe se le regole non ci fossero; cosa sarebbe il Nascondino senza il “liberi tutti”? cosa sarebbe il Monopoli senza imprevisti e probabilità? cosa sarebbe il tennis senza il doppio fallo? In questo senso Dracula è, addirittura, una sorta di videogioco del XIX secolo. Le regole sono tante: il vampiro non tollera la luce del sole, l’aglio, il crocefisso, l’acqua benedetta e l’ostia consacrata, può riposare solo nella sua bara e nella sua terra, non viene riflesso dagli specchi; in compenso è pressoché immortale, ha una forza sovrumana, può trasformarsi in pipistrello o in nebbia e comanda agli animali della notte. Il cacciatore di vampiri deve evitare la notte altrimenti il vampiro è invincibile e il cacciatore un imbecille, deve trovare il nascondiglio diurno del vampiro (e Dracula ne ha dislocati parecchi a Londra) perché può ucciderlo solo infilandogli il famoso paletto acuminato nel cuore mentre riposa nella sua bara. Per difendersi può contare sull’aglio e le altre cose elencate in precedenza. Sono queste ferree regole che hanno reso così vitale la figura del vampiro e, come in ogni gioco, il punteggio o il vincitore può cambiare. Se Van Helsig sconfigge Dracula col paletto, per Murnau e Werner Herzog è il sole che annienta il vampiro, ma per Murnau il vampiro viene sconfitto, per Herzog si tratta di un pareggio. In Per favore non mordermi sul collo di Polanski è invece il vampiro, infine, a vincere. Basta cambiare un poco le regole e ecco l’insuperabile episodio della Pantera Rosa Pink plasma,
ecco i fumetti sulle vampire sexy degli anni settanta, tipo Zora, Jacula, Lucifera o il recente e bellissimo Dampyr della Bonelli che, pur con alti e bassi, mi pare l’espressione più matura e completa in fatto di vampirologia.
Ma quello che ha consacrato l’immortalità del vampiro è senz’altro il cinema
Il cinema ha rafforzato anche altri due miti moderni: quello di Frankenstein e quello di Jeckyll e Hyde. Per me ce ne sono almeno altri due, potentissimi, ma che languono per carenza di attenzione da parte della settima arte: Don Giovanni, che, probabilmente, finora ha dovuto patire gli strali della censura, ma potrebbe avere ancora una chance, se solo Rocco ci leggesse e ci assecondasse, e Faust. Faust la sua parte di gloria cinematografica l’ha avuta ma, a parte il patto col diavolo, è poco trash. Le versioni di Murnau e Sokurov sono autentici capolavori, ma troppo intellettuali. Incredibilmente, neppure lo straordinario Il fantasma del palcoscenico ha avuto emuli.
Dracula, invece, non si può proprio lamentare. A parte versioni culto come quelle ancora di Murnau, di Browning, di Polanski,
di Herzog di Coppola, ci sono miriadi di film che lo condiscono in mille salse. I film seriali con Christopher Lee, quelli comici, quelli sexy, gli horror puri. Da questo immenso mare pesca Matthieu Orléan.
“Con questo percorso possiamo vedere come si è evoluta l’iconografia del vampiro che, da nobile rumeno ancorato alle vecchie tradizioni feudali, diventa più empatico, moderno, finisce quasi per appartenere alla beat generation. Ogni decade ha un grande film di vampiri e negli ultimi anni è esplosa la moda delle serie”. Secondo Orléan la società usa il vampiro per proiettare i propri timori. “Negli anni ottanta l’AIDS, direttamente relazionato col sangue, marcò questo genere di film. Oggi si concentra nella relazione coi nostri corpi e con l’inclusione delle minoranze nella società”. Tutto questo Orléans lo ha raccolto con più di 400 spezzoni riassunti in 15 audiovisivi “Le storie dei vampiri sono andate oltre, fino a integrarsi in un contesto politico”, dice ancora il curatore, che ha intitolato una sala al Vampiro / Politico.
Insomma, anche a noi piacerebbe vedere questa mostra. Lo so che non importa un accidente a nessuno dei nostri desideri, ma con una cosa del genere ci si possono fare un po’ di soldi: la sola cosa che conti in una società come la nostra. Quindi una speranza c’è.