Tutta la luce che non vediamo (All The Light We Cannot See)
Regia: Shawn Levy; soggetto: dal romanzo omonimo di Anthony Doerr; sceneggiatura: Steven Knight; fotografia: Tobias A. Schliessler; scenografia: Simon Elliott; costumi: Andrea Flesch; musiche: James Newton Howard; trucco: Karen Teitge; effetti speciali: Gabor Kiszelly, Charlie Lehmer; interpreti: Aria Mia Loberti (Marie-Laure LeBlanc), Louis Hofmann (Werner Pfennig), Lars Eidinger (Reinhold von Rumpel), Marion Bailey (Madame Manec), Hugh Laurie (Etienne LeBlanc), Mark Ruffalo (Daniel LeBlanc); produzione: Mary McLaglen Steven Knight, Josh S. Barry, Dan Levine, Shawn Levy per 21 Laps Entertainment, Pioneer Stilking Films; distribuzione: Netflix; durata: 4 episodi da 51′-63′.
Trama
Marie-Laure LeBlanc (Loberti), parigina non vedente, è cresciuta col padre Daniel (Mark Ruffalo, The Avengers), curatore di musei che le ha insegnato a muoversi nei meandri cittadini costruendo per lei mappe nella forma di precise miniature. Ella dopo l’invasione nazista della Francia, vie da sola sull’isola di Saint Malo. Dopo la scomparsa misteriosa del padre, diffonde tramite una radio la sua voce intenta nella lettura Ventimila leghe sotto i mari di Verne, della sua soffitta. In realtà, invia trasmissioni notturne in codice alla Resistenza per ordine dello zio, il veterano di guerra Etienne (Hugh Laurie, Dr House).
Sulle tracce della ragazza, Reinhold von Rumpel (Lars Eidinger), un ufficiale morente disposto a tutto per recuperare un gioiello trafugato da Daniel che secondo una leggenda può donare la vita e il giovane soldato tedesco Werner (Louis Hofmann, Dark), esperto di trasmissioni radiofoniche al servizio del Terzo Reich, che ascolta tutte le notti Marie Laure, la quale trasmette su una frequenza che lui stesso ascoltava prima di arruolarsi. Innamorato della sua voce, il giovane soldato vuole trovarla per proteggerla.
Attraverso una serie di flashback conosciamo LeBlanc, genitore amorevole e idealista e scopriamo il tumultuoso passato di Werner, arruolato forzatamente dai nazisti in qualità di genio delle radio e costretto a sopportare un addestramento inumano e l’indottrinamento sulla superiorità ariana.
Il commento del redattore
Accostandomi a Tutta la luce che non vediamo, ideata da Steven Knight (creatore di veri e propri cult come Peaky Blinders), ero molto curioso: come avrebbe adattato un romanzo che ha sì pochi personaggi principali, ma è dotato di un approfondimento psicologico notevole su di essi? Sin da subito mi ha sorpreso il numero di episodi, cioè quattro. Mi sembrava un po’ poco, ma guardandola ho potuto apprezzare l’ambientazione e la scenografia, davvero minuziose, così come gli effetti speciali.
Proseguendo la visione però mi sono accorto che mancava qualcosa: il regista Shawn Levy (Stranger Things)sembra un po’ spaesato. Lascia spazio alla vicenda, caricata di numerosi flashback e, per mantenere alto il ritmo e l’attenzione dello spettatore, dedica poca attenzione proprio ai personaggi, che sono appena abbozzati. Ora, oltre alla vicenda è proprio quest’analisi psicologica che rappresentava uno dei punti di forza del romanzo di Doerr.
Altro punto critico è il cast. Aria Mia Loberti, che interpreta la protagonista, fa del suo meglio per reggere quasi tutto il peso della vicenda sulle proprie spalle ma è un’esordiente, affetta da una malattia che la rende cieca per davvero. La sua prestazione è notevole ma davanti ad attori più navigati come Hugh Laurie e Mark Ruffalo appare in soggezione. Il dubbio che nella scelta Netflix abbia imposto la propria politica di inclusione è legittimo: un non vedente deve essere interpretato da un non vedente, un sordo da un sordo e così via. Lungi da me prendermela con lei, che è stata brava, ma forse un’interprete con più esperienza avrebbe giovato alla serie.