Dal 5 novembre sarà di nuovo in sala il film del 1957 Il settimo sigillo, l’opera per la quale Ingmar Bergman è giustamente famoso
Di solito una celebrazione coincide con una data pari, cinquantenario, centenario, ecc. Ha cominciato Yoko Ono a sovvertire le regole, facendo uscire Imagine per il 78° compleanno di John Lennon; poi è uscita la nuova versione di Metropolis, a 92 anni suonati dalla prima uscita, e ora abbiamo il capolavoro bergmaniano a celebrare i 61 anni della pellicola.
Cosa c’è di più classico e scontato di una partita a scacchi con la Morte? Eppure è proprio questo luogo comune del’iconografia ha reso questo film indimenticabile.
Il cavaliere Antonius Blok, interpretato da Max Von Sydow, torna dalla crociata. Lo vediamo, stanco e amareggiato, che percorre col suo scudiero un mondo violento, infestato dalla peste, ma c’è un motivo ben più alto per il suo umore nero: ha perso la fede. Nel suo cammino incontra diverse persone fra le quali la Morte, interpretata da Bendt Ekerot, che è venuta a prenderlo. Blok non è pronto per la fine e propone alla Morte una sfida a scacchi. Ovviamente la Morte vincerà la partita, ma Blok riuscirà a ricongiungersi alla famiglia prima che Morte faccia il suo lavoro.
Il film non è il migliore di Bergman, ma è il più noto, probabilmente perché le tematiche della fede e della morte ossessionano l’uomo da quando è stato creato o, molto più probabilmente, da quando un umanoide ha iniziato a pensare.
Il titolo viene direttamente dall’ottavo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni. Voi penserete che questa mia conoscenza derivi dai severi studi biblici o dalle lunghe ricerche su google, invece no, “Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe” è proprio la frase che inizia il film.
Vedendo oggi questo film che venne premiato al decimo Festival di Cannes, ci sembrerà eccessivamente didascalico ma, come già abbiamo avuto modo di dire di Metropolis Luis Buñuel e io, se la storia lascia un po’ a desiderare, la fotografia è stupenda e colpisce soprattutto per la sua potenza plastica. Bergman ha dichiarato esplicitamente di essersi ispirato ai quadri di Albrecht Dürer, conosciuto in Italia anche come Alberto Duro, brrr! e al Trionfo della Morte dell’Orcagna, ma anche i personaggi del film sembrano intagliati come fossero sculture lignee medioevali.
Vista la condizione del cinema che oggi ottiene la maggiore popolarità che, in genere, si sofferma soprattutto sulla storia e sugli effetti speciali, sacrificando spesso la fotografia e, soprattutto, la regia; sarebbe interessante avere un riscontro di come vengano percepiti film come questi, per i quali la storia ha un’importanza se non secondaria, di sicuro sacrificabile rispetto alle scelte di regia e dove si ricercava più di ogni altra cosa la bellezza dell’immagine.