The Sweet East del titolo è quello della giovane americana Lilian, che, durante una gita con la sua classe di liceo, si allontana volontariamente dai compagni e inizia un rocambolesco girovagare lungo l’intera East Coast americana. Data per scomparsa dai famigliari disperati, Lilian toccherà con mano l’estrema frammentarietà della contemporanea società americana.
Un’Odissea volontaria, una sorta di moderno romanzo di formazione in una moderna Wonderland che tocca uno dopo l’altra tutti i punti cardinali e i nervi scoperti dell’America, dei suoi figli arrabbiati e di quelli rifiutati. La minuscola comunità di maschi musulmani dediti all’eurodance, squatters, entusiasti registi sperimentali, neo-nazi e monaci eremiti: non manca nulla lungo la road map di Lilian se non, forse, un senso reale e misurabile.
The Sweet East ha un grosso, fastidioso limite: l’intera narrazione è disseminata da una certa qual pretenziosità artsy da scuola di cinema sperimentale newyorchese che non sempre sembra arrivare dove vorrebbe, risultando più come forzate stranezze fine a loro stesse che come efficaci azzardi registici. Il sapore surrealista cui vorrebbe sottendere l’intera pellicola, più che rappresentare un’impostazione generale viene fuori a strappi e spesso non senza fatica: i troppi registri filmici cui il regista fa ricorso non sempre risultano ben amalgamati e piuttosto forzato e da qui la sensazione, a volte forte, di pretenziosità. L’episodio della sparatoria sul set della pellicola che Lilian si ritrova quasi casualmente ad interpretare ne è l’esempio più lampante e doloroso.
The Sweet East: Alice 2.0
Questo perché un vero, forte cuore tematico il film non ce l’ha. O meglio, ce l’avrebbe, ma si snoda con sensibile difficoltà: un viaggio nel cuore frammentato dall’America che, pur a frequenze e ritmi diversi, continua in qualche modo a battere ancora. Le micro-comunità di cui di volta in volta Lilian entra giocoforza a far parte sono, per ragioni spesso opposte, minuscole isole tendenzialmente socialmente autosufficienti e auto-riferite e rigorosamente isolate, quando non in esplicito conflitto l’una con l’altra. Il castello da film della Hammer in cui la protagonista finisce il proprio viaggio ospite di una non meglio definita misteriosa setta di monaci ne è forse la rappresentazione più efficace ed immediata.
L’evidente modello di riferimento del regista Sean Prince Williams è Alice in Wonderland e la pellicola è fitta di riferimenti più o meno evidenti alla seminale opera di Lewis Carroll. Nonostante gli evidenti e pretestuosi strappi narrativi che conducono Lillian da un episodio all’altro del proprio girovagare, è proprio la costante sensazione di volontà di riadattamento dell’opera di Carroll all’attuale società americana a rendere l’intera pellicola curiosa e, dopotutto, piuttosto scorrevole in quella sostanziale mancanza di equilibrio e misura che è spesso comune alle opere figlie di un’ambizione eccessiva rispetto agli strumenti a disposizione.
The Sweet East: l’importanza di Talia Ryder
Gran parte del merito del suo pur imperfetto funzionamento va piuttosto riconosciuto all’interpretazione della protagonista Talia Ryder, già vista qualche anno fa nel riadattamento di West Side Story di Steven Spielberg. La sua Lillian è una giovane donna dalle mille, e spesso a lei stessa ancora sconosciute, sfaccettature, nobili e meno nobili. In fuga da una famiglia che non la conosce davvero e da una socialità quotidiana che non funziona, Lillian ha l’occasione di essere di volta in volta quello che preferisce, modellandosi ed evolvendosi nelle esperienze, anche estreme, cui il suo viaggio di formazione mette davanti.
Poetessa, attrice in rampa di lancio, potenziale Lolita, damigella in pericolo: ad ogni nuovo ruolo esperienziale in cui la propria Lillian si ritrova, la Ryder riesce a dare una sfumatura nuova e credibile, pur mantenendo coerenti con le situazioni le proprie fondanti dolenza, naturalezza e fame di esperienze. The Sweet East è un film profondamente imperfetto, che paga in termini di immediatezza e chiarezza la propria eccessiva ambizione ma a cui, a conti fatti, non mancano i punti di forza e meriti, grazie soprattutto al lavoro del cast protagonista.