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Lettura: The Substance, un ricettacolo di cattive intenzioni
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The Substance, un ricettacolo di cattive intenzioni

Il film reiventa le narrazioni sul femminile: Coralie Fargeat, regista del film, proclama la libertà di crearsi e autodistruggersi.

Benedetta Vicanolo 7 mesi fa Commenta! 5
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Da quando The Substance è approdato sotto la lente d’ingrandimento della critica, la performance di Demi Moore è stata valutata come la migliore della sua carriera. Eppure The Substance dice molto di più rispetto alle sue protagoniste e racconta una meravigliosa opera in cui concept, tematiche, sceneggiatura, messa in scena e montaggio creano insieme un connubio vincente. Coralie Fargeat, regista del film, aveva fatto vedere baluginii del suo immaginario già nel 2017, quando il suo primo lungometraggio Revenge è riuscito a raccogliere il plauso della critica e del pubblico.

Contenuti
The Substance: anatomia del mostruosoThe Substance e l’incontro con il femminismo

Il cinema di Fargeat non è facile da digerire, difficile sotto tantissimi punti di vista: dalle tematiche alla scelta, volontaria, di mostrarsi disturbante. Quello della regista francese è un film ipnotico, psichedelico che trascina lo spettatore in una ragnatela hyper-pop che ha poco da condividere con tematiche mainstream. La femminilità, presente e potente nella sua rappresentazione, è non solo strumento ma anche diversivo per raccontare il mostruoso contemporaneo e tutte le paure ancestrali a esso legate.

The substance, coralie fargeat, 2024

The Substance: anatomia del mostruoso

Il film, presentato in anteprima alla settantasettesima edizione del Festival Cannes, si concentra sulla storia di Elisabeth Sparkle (Demi Moore) che, reduce dal licenziamento della sua stessa trasmissione di aerobica a causa della sua età, decide di utilizzare un farmaco sperimentale (noto come The Substance, appunto) che promette ai clienti la rigenerazione del proprio corpo. La bellissima Sue (Margaret Qualley) nasce dalla spina dorsale di Elisabeth in maniera dolorosa e cruenta. Ci sono poche regole da seguire: la prima è che le due donne dovranno alternarsi ogni settimana, l’una andando in ibernazione e l’altra libera di girare per il mondo, senza nessuna eccezione; la seconda è un reminder continuo alla “matrice” che le donne sono la stessa persona.

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Ovviamente i benefici della giovanissima e bella Sue intercederanno in un percorso di lineare crescita e beneficio, arrivando alla dipendenza e al matricidio. Sono tantissimi i riferimenti presenti all’interno dell’opera di Fargeat: da Frankenstein a Il Ritratto di Dorian Grey, dagli horror camp anni ottanta al bellissimo omaggio a Carrie di Brian De Palma. C’è di tutto in The Substance e tutto acquista senso, logica e coerenza narrativa.

Inutile dire quanto questo lavoro sia complesso, soprattutto in produzioni così a lungo raggio e con un immaginario tanto strutturato come quello che ci propone la regista. Fargeat accosta un minuzioso utilizzo della macchina da presa a un montaggio velocissimo, ritmato dalla musica potente e assordante, riducendo all’osso i dialoghi. Sono i volti delle sue protagoniste a raccontare di inadeguatezza e rabbia.

The substance, coralie fargeat, 2024

The Substance e l’incontro con il femminismo

Il femminile permea tutta la pellicola e, pur essendo alla fine dei conti il motore che avvia gli ingranaggi, risulta inspessito da una rappresentazione fugace e quasi anestetizzata. Elisabeth e Sue sono due lati della stessa medaglia che subiscono influenza e potere di strutture machiste radicate nella società, specie nel mondo della televisione. I sogni sono sottomessi alla volontà di piegarsi, di ridicolizzarsi, di essere, infine, il freek che tutti si aspettano: la marionetta per fare i soldi.

Le protagoniste dei film di Fargeat non sono bamboline: non lo era Jen (Matilda Lutz) di Revenge, che senza una gamba riusciva a darsi giustizia in un mondo post apocalittico; e non lo è Elisabeth che, nell’ansia di invertire gli ingranaggi del tempo, decide di distruggersi. Caroline Fargeat ci pone davanti un nuovo modo di scoprire il femminile, un modo autodeterminato di capire e disintegrarsi, ricostruirsi e, forse, infine, salvarsi. Ma solo nella prospettiva in cui la salvezza è un’altra dolorosa piega (e piaga) della sconfitta dei contemporanei.

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