La fine è arrivata. A mente fredda, dopo tutte le parole spese dai protagonisti e dagli addetti ai lavori, è ora possibile tracciare il bilancio della docu-serie Netflix più vista di tutti i tempi: mentre sto scrivendo, negli USA, The Last Dance è stata vista da quasi 24 milioni di telespettatori e in Italia è stabilmente ai primi posti tra i titoli più guardati. Una premessa è d’obbligo: il materiale è stato girato oltre 20 anni fa, per documentare l’ultimo anno di Michael Jordan (che poi non sia stato l’ultimo, con l’inaspettato ritorno di MJ ai Washington Wizards a 40 anni suonati, conta poco), grazie a Michael Jordan e sotto il controllo di Michael Jordan, che ha avuto l’ultima parola sul montaggio finale. Il punto di vista è naturalmente il suo e non sono poche le incongruenze che si possono notare in una storia che, c’è da dire, fila splendidamente, soffermandosi sui personaggi che His Airness ha ritenuto fondamentali e glissando su altri, che magari semplicemente non hanno voluto prender parte alla celebrazione. L’opinione di Michael e il suo racconto sono preponderanti e presi come oro colato, anche quando si tenta un contraddittorio. Il caso più clamoroso è quello di Isaiah Thomas sulla rivalità Pistons-Bulls e sull’abbandono del campo di Detroit durante gara 4 della finale di Conference, poi persa: anche qui l’ultima parola di Jordan sul racconto dell’avversario è “bullshit” e non devo spiegarti cosa significhi.
Secondo Horace Grant, bollato come spia da più di un compagno e soprattutto dal deus ex machina Jordan, la serie è al 90% invenzione. Il giudizio è certamente pro domo sua: Grant ha fatto parte dei Bulls per anni e poi è andato a vincere coi Lakers dei primi anni 2000 e semplicemente non ci sta a prendersi le colpe della fuga di notizie che compromise la stagione del terzo titolo, aumentando la pressione sulla squadra, destabilizzata secondo la stampa dalle scappatelle di MJ sui campi di golf o al casinò. Come siano andate effettivamente le cose è difficile saperlo. Altra voce che stona nel coro di lodi per The Last Dance è quella di Karl Malone, cui nelle ultime puntate viene dedicato pochissimo spazio: “Io ero un figlio di p******, ma Michael lo era almeno quanto me” sono le sue parole e del vero c’è: l’ossessione della vittoria a tutti costi e la concentrazione che Michael pretendeva dalla squadra era assoluta. Capitava che i suoi bersagli preferiti fossero torchiati ai limiti della tortura psicologica. Uno di quelli che si è ribellato di fronte a questo atteggiamento è stato Steve Kerr, che in proposito minimizza: del suo alterco con Jordan, nel quale sono venuti effettivamente alle mani, dice che è stato fondamentale per guadagnare quel rispetto reciproco che in partita e soprattutto nelle finali ’97 e ’98 è stato la chiave per ottenere la vittoria del titolo. Un ultimo difetto è la descrizione di Jerry Krause, il GM che ha permesso ai Bulls di esistere: egli viene dipinto spesso come antagonista, soprattutto all’inizio delle serie tv e non ha modo di difendersi perchè scomparso. Quest’ultimo aspetto dev’essere saltato all’occhio anche dei produttori, che negli ultimi episodi hanno aggiustato il tiro sul punto, soprattutto nelle interviste, riconoscendo al dirigente il giusto merito nella costruzione della squadra sul mercato, assemblata per vincere stagione dopo stagione.
Terminata questa lunga ma doverosa premessa e data voce ai detrattori della serie, il giudizio che si chiede a noi della Redazione di iCrewPlay Cinema è prima di tutto critico. Sulla qualità delle immagini e del montaggio non si possono avere dubbi: il materiale filmato è dinamite, quando non rivela apertamente suggerisce l’azione in modo sublime e ha una colonna sonora meravigliosa (in alto puoi ascoltare la canzone dei Pearl Jam che incornicia il finale: Present Tense). The Last Dance è un gioiello, a patto di considerarla più una serie tv che un documentario. Coloro che non conoscono e non hanno vissuto l’epopea dei Chicago Bulls (chi scrive nel ’98 aveva 12 anni, quindi ha subito un impatto molto parziale dall’Italia, dominata dalla “monocultura calcistica”) resteranno soddisfatti dalla mole di informazioni,retroscena, momenti esaltanti e delusioni terribili che le 10 puntate propongono. Nella serie Netflix c’è tutto: i buoni, i cattivi, le difficoltà, la resa, la sofferenza, la rinascita e infine quel romantico ultimo ballo di campioni, ora persone e non più personaggi, che resta indimenticabile e scolpito nella memoria dello spettatore.