Allerta Spoiler –
Essere Michael Jordan
L’episodio 5 di The Last Dance viene introdotto dalla dedica a un campione che ci ha lasciato prematuramente, il 26 gennaio di quest’anno. “In the loving memory of Kobe Bryant“, queste le parole che appaiono sullo schermo e la commozione è ancora presente nell’animo di tutti quelli che lo hanno amato. Era un po’ italiano Kobe. Il padre Joe Bryant, detto Jellybean, ha vestito le maglie di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggiana nel nostro paese, col figlio al seguito e il giovane Kobe ha imparato l’italiano che parlava ancora molto bene, come si sente in qualche intervista (e quando faceva trash talking con Marco Belinelli e Danilo Gallinari in NBA). In questo episodio assistiamo al suo primo All Star Game, quello del 1998, nel quale, all’età di 18 anni è il più giovane della compagnia: “Allora non era come oggi e l’età media dei partecipanti era molto più alta”. Nello spogliatoio si vede Jordan che parla con i suoi compagni (allora si giocava ancora Est contro Ovest, Jordan quindi giocava coi Chicago Bulls che sono nella Eastern Conference, mentre Bryant era l’astro nascente dei Los Angeles Lakers, squadra leader della Western Conference) ammonendoli:“Vedrete che il ragazzino comincerà ad attaccare dal primo minuto e vorrà marcarmi uno contro uno. Gli dimostrerò chi è il migliore”. E così fu: nelle immagini assistiamo a giocate uno contro uno di Jordan, che domina Kobe, ma si vede che il ragazzo ha numeri importanti. Dopo quel match Bryant ricorda:” Michael mi diede molti consigli, trattandomi quasi come un fratello maggiore. Senza di lui forse non avrei vinto 5 titoli, non sarei arrivato dove sono ora“: un tributo forse eccessivo ma che dimostra quanto Michael Jordan fosse un esempio per i giovani campioni e per gli appassionati di basket.
La storia continua, parlandoci proprio dei numerosi contratti di sponsorizzazione, primo fra tutti quello con la Nike, che mise in commercio una linea di scarpe a lui dedicata: le Air Jordan (così battezzate perchè Michael quando schiacciava sembrava volare nell’aria). I ragazzini americani tagliavano il prato e lavoravano d’estate, mettevano da parte i soldi della paghetta, pur di riuscire a permettersi le scarpe di Michael Jordan. E dire che l’agente di Michael, David Falk, parlò per primo con la Converse, che all’epoca vestiva e calzava i giocatori NBA in esclusiva: era il 1984 e il giovane Michael era appena stato selezionato al Draft, ma non aveva ancora messo piede sul campo da gioco. La Converse rifiutò l’investimento, anche se il vero obiettivo di Michael era firmare per la Adidas, che all’epoca vestiva i campioni di sport individuali, come il tennis. Alla fine il ragazzo accettò l’irrinunciabile offerta di una questa piccola azienda, da poco era entrata nel mercato dell’abbigliamento sportivo, che gli offrì 250.000 dollari e una linea di prodotti tutta sua, sui cui utili egli avrebbe trattenuto una cospicua percentuale. Michael, come sempre chiese consiglio al padre. “Se rifiuti sei un idiota” fu il commento del signor Jordan e il contratto fu firmato. Il resto è storia: la Nike aveva previsto di vendere i primi modelli di Air Jordan per un incasso di circa 3 milioni di dollari. Le scarpe realizzarono un profitto di ben 128 milioni di dollari, tanto da rendere Jordan così ricco da dichiarare: “Posso giocare liberamente,senza preoccuparmi del contratto”, legato nella NBA ai vincoli del tetto salariale, cosa che non impedì a Jerry Reinsdorf di offrirgli un sostanzioso adeguamento dell’ingaggio, appena divenuto proprietario e presidente della squadra, nel 1986.
L’insostenibile leggerezza dell’essere Michael Jordan
Si prosegue con la narrazione della costituzione del Dream Team di Barcellona ’92, primo anno in cui i professionisti NBA andarono alle Olimpiadi e si torna inevitabilmente sulla clamorosa esclusione dalla squadra di Isaiah Thomas, play dei Detroit Pistons (secondo molti Jordan pose allo staff della nazionale un ultimatum, ma il campione ha sempre minimizzato). Quando l’intervistatore mostra a Jordan le parole di Thomas sull’episodio del ’91 (nel quale gli sconfitti Pistons uscirono dal campo sette secondi prima della fine dell’ultima partita della serie, senza stringere la mano ai Bulls) His Airness liquida le giustificazioni come “bullshit”. Ci tiene però a puntualizzare che Thomas aveva avuto liti con molti dei membri principali del Dream Team (Larry Bird, Magic Johnson etc.) e che la sua presenza avrebbe rovinato l’armonia del gruppo. Naturalmente gli USA vinsero l’oro contro la Croazia. Proprio la Croazia aveva come giocatore più rappresentativo Toni Kukoc, che il solito Krause stava corteggiando insistentemente. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia Kukoc preferì restare in Europa, ma sembrava pronto per il salto verso la NBA. Le stelle della squadra non sono d’accordo e quando il Dream Team affronta la Croazia la prima volta, nel girone di qualificazione, Jordan e Pippen marcarono Kukoc a turno, annullandolo, con l’intento di dimostrare che i Bulls non avevano bisogno di lui. In finale però il croato reagì e, nonostante la sconfitta, giocò una partita eccellente, convincendo un sorpreso Jordan ad ammettere che forse avrebbe potuto essere uno “da Bulls”. Ne riparleremo.
L’episodio 6 di The Last Dance riprende il racconto dalla stagione 1992/1993: i Bulls hanno davanti l’impresa di vincere il terzo titolo consecutivo: sono decenni che nessuno ci riesce, hanno fallito l’impresa anche i Lakers di Magic Johnson e i Celtics di Larry Bird. Se Jordan e i Bulls realizzassero il cosiddetto Three-peat, entrerebbero nella Storia. La stagione procede bene: il bilancio finale è di 57 vittorie e 25 sconfitte. A Est solo i New York Knicks fanno meglio, con un record di 60 – 22, mentre a Ovest dominano i Phoenix Suns del nuovo MVP della lega: Charles Barkley. I Playoff scorrono lisci, Chicago batte Atlanta 3-0 al primo turno e schianta i Cleveland Cavaliers al secondo turno per 4-0. La finale della Eastern Conference è New York Knicks – Chicago Bulls: una serie combattuta, ma quello che fa più notizia è la gita ad Atlantic City che Jordan e il suo entourage fanno prima di una partita. Si sa che gli Americani adorano le rapide ascese, ma idolatrano le rovinose cadute. Nello spazio di pochi giorni le voci si rincorrono: Jordan ha problemi col gioco d’azzardo?
La realtà è un po’ più complicata, come racconta Michael: ““Molti vorrebbero essere Michael Jordan per un giorno o una settimana, ma se fosse per una settimana lo vorrebbero ancora?”. La pressione mediatica attorno a Michael è incredibile: non può muovere un passo senza che la gente lo circondi, cerchi di toccarlo, di portarsi via un pezzo di Michael Jordan; restare concentrati sull’obiettivo finale e gestire la pressione in questo modo è qualcosa di sovrumano, cui Michael non può sottrarsi. Le partite a golf, le serate al tavolo da gioco dove perde cifre per lui irrisorie, ma che al pubblico sembrano enormi, gli sono necessarie per non scoppiare e ben lo sa Phil Jackson, che gli concede queste pause ben volentieri, salvo chiedergli in campo il massimo. Battuti i Knicks 4-2 ora ci sono i Phoenix Suns da affrontare. Oltre a Barkley i Suns possono contare su Dan Majerle, considerato uno dei migliori difensori della Lega e pupillo di Jerry Krause, GM dei Bulls, il quale farebbe carte false per metterlo sotto contratto. La finale è tirata ma Jordan trascina i Bulls alla vittoria con l’acuto di gara 4, in cui segna 55 punti, facendo letteralmente impazzire il povero Majerle. La serie termina 4-2. Il miglior giocatore delle Finali è naturalmente Michael Jordan: godetevi qualche giocata nel filmato in alto.