The Last Dance, Episodio VII: La morte del padre e il primo ritiro
Alla fine della stagione 1992/93, dopo il terzo titolo di fila, l’eroe è stanco: Michael Jeffrey Jordan, il giocatore più forte del mondo, quello che sta rendendo la NBA un fenomeno planetario, è esasperato da una vita fatta di pressione, non solo a livello sportivo ma anche mediatico. Gli strascichi della polemica sul gioco d’azzardo, uscita fuori proprio durante le finali contro Phoenix a causa della presenza di Jordan in un casinò di Atlantic City è la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo il terzo titolo vinto solo due persone sanno che cosa passi nella testa di Michael: suo padre James Jordan e lui stesso.
La scelta di ritirarsi dalla pallacanestro diventa inevitabile dopo un evento drammatico. Il 22 agosto del 1993 James Jordan sta tornando a casa in auto, dopo il funerale di un suo caro amico. La giornata è stata dura, anche dal punto di vista emotivo, si sente esausto e decide di accostare in una piazzola di sosta per riposarsi. Durante il sonno, due criminali accostano dietro di lui, vedendo un’occasione: l’auto è una Lexus, un modello costoso che farebbe gola a qualunque ricettatore. Uccidono il vecchio che riposa all’interno e fuggono, presto rintracciati dalla polizia. A quel punto tutti gli scribacchini degli Stati Uniti salgono in cattedra: alcuni ritengono perfino che l’assassinio sia una ritorsione per i debiti di gioco accumulati dal figlio. Il 6 ottobre 1993, alla vigilia della stagione, i Chicago Bulls convocano una conferenza stampa: la notizia purtroppo è già trapelata, si tratta solo di averne conferma. Michael Jordan arriva è vestito in modo elegante, formale. Accanto a lui il proprietario della squadra, Jerry Reinsdorf e l’allenatore Phil Jackson. Quando Michael Jordan prende il microfono le sue parole sono queste: “: “Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse un giorno, ma ora penso alla famiglia”. Lo sguardo torna sul 1998: il GM Jerry Krause, in conferenza stampa, viene provocato da un giornalista, il quale gli chiede se fosse sorpreso della resistenza della squadra ai tradimenti, ai contrasti e alle bugìe di quella stagione. Krause risponde piccato che non è accaduto nulla del genere e lascia la conferenza stampa. Così hanno inizio i playoffs del 1997/98, l’ultimo ballo dei Chicago Bulls di Michael Jordan.
Episodio VIII: il baseball e il ritorno
Nel 1994 Michael Jordan decide di realizzare un sogno che coltiva da quando era un bambino, incoraggiato proprio da suo padre, che lo avrebbe voluto giocatore di baseball. Alla tenera età di 31 anni firma un contratto da svincolato coi Chicago White Sox (anch’essi di proprietà di Jerry Reinsdorf, il quale nell’intervista ci tiene a sottolineare di avergli comunque garantito lo stipendio che aveva nei Bulls) che lo mandano a farsi le ossa nei Birmingham Barons, loro squadra satellite che milita nella Minor League, una sorta di campionato di serie B. Il baseball è una disciplina completamente diversa dal basket e richiede una preparazione fisica molto differente: coi Barons Jordan gioca 127 partite, con una media in battuta del 20,2% e 3 home run. I soliti giornalisti lo criticano per questi risultato non proprio esaltanti,ritenendo il suo ingaggio poco più di una trovata pubblicitaria. Tra il settembre e il novembre 1994 si trasferisce agli Scottsdale Scorpions, nei quali migliora moltissimo le sue statistiche. In seguito torna ad allenarsi coi Chicago White Sox e gira per la Warner Bros Space Jam nel quale recita al fianco di altre stelle NBA, di Bill Murray ma soprattutto dei Looney Tunes, Bugs Bunny in testa. Michael segue un ritmo impressionante,alternando le giornate di ripresa del film ad allenamenti notturni massacranti, anche in compagnia di degli avversari di una volta. Il 2 marzo si ritira ufficialmente dal baseball e il 18 marzo 1995 annuncia: “I’m back”. Il comunicato dei Bulls di quel giorno è questo:“Michael Jordan ha informato i Bulls di aver interrotto il suo volontario ritiro di 17 mesi. Esordirà domenica a Indianapolis contro gli Indiana Pacers.” Da qui riparte il racconto: durante la sua assenza il ruolo di leader e realizzatore della squadra era passato nelle mani di Scottie Pippen, che aveva portato la squadra ale semifinali playoff, ma senza andare oltre, perdendo una tiratissima gara 7 contro i New York Knicks. Dopo il ritorno di Michael i Bulls del 1994/95 arrivano di nuovo in semifinale dove si scontrano con gli Orlando Magic, che contano sull’estro di Penny Hardaway e soprattutto sula prestanza fisica di un centro che promette di dominare a lungo sotto canestro: il giovane Shaquille O’Neal. Dopo le iniziali difficoltà, il rendimento di Michael è stato altalenante: allenarsi è un conto, giocare partite ufficiali un altro e nemmeno lui può recuperare la condizione fisica e mentale dei giorni migliori in breve tempo. In quella serie Jordan fa registrare statistiche interessanti, con l’acuto dei 39 punti di gara 3, ma alla fine i Bulls devono arrendersi per 4-2. L’impressione di molti addetti ai lavori è che la squadra esprima un gioco migliore quando Jordan non è in campo.
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Non sembrano ricordare però una delle qualità che hanno reso immenso quel giocatore: la feroce determinazione. In estate Jordan si allena tutti i giorni, senza riposarsi come di solito accade nei periodi di pausa e torna dalle vacanze in forma smagliante.Nel 1995/96 i Chicago Bulls ritrovano il miglior Michael Jordan, che gioca tutte le 82 partite di stagione regolare segnando 37,7 punti a gara, miglior realizzatore della lega, come non gli succedeva dal 1993 e vince a mani basse il titolo di MVP. I Bulls superano il record dei Los Angeles Lakers, che resisteva da 23 anni, vincendo 72 partite e perdendone solo 10. I playoffs sono una cavalcata trionfale, con la ciliegina sulla torta del 4-0 inflitto agli Orlando Magic nelle finali di Eastern Conference. Nella finale vera e propria ad attendere Chicago ci sono i Seattle Supersonics di Gary Payton, detto “The Glove (il guanto)”. All’inizio l’idea del tecnico degli avversari è quella di liberare Payton dalla marcatura di Jordan in difesa per farlo concentrare sull’attacco: il risultato è pessimo, con i Tori che vincono facilmente i primi due incontri. In seguito Payton pretende di marcare Jordan e le cose migliorano. Ancora oggi l’orgoglioso Gary, intervistato da ESPN, sostiene che l’esito non sarebbe stato così netto se avesse potuto marcare Jordan per tutta la serie. Vedendo l’intervista, la risposta di Michael è un’eloquente risata. Seattle vince 2 partite ma Chicago torna sul tetto del Mondo, chiudendo la serie in 6 gare. Tutto ciò accade la terza domenica di giugno, che nel Regno Unito e negli USA è il Father’s Day. Le lacrime di Michael, ancora una volta MVP delle Finals, dicono tutto: da lassù James sta sicuramente guardando. Si torna al 1998 e cominciano i playoffs. i Bulls faticano, pur vincendo. Riusciranno a compiere l’impresa ancora una volta? The Last Dance continua…