#netflix #the cowboy war #pistolero
Pare sia stata la sparatoria più importante della storia. 26 ottobre 1881, Arizona. I fratelli Earp contro i Cowboys. La Legge contro i fuori dalla Legge. Qualsiasi cosa possa significare l’espressione nel West.
Che dire di Wyatt Earp. Decenni dopo le vicende di Tombstone Hollywood lo ha reso un’icona della Frontiera. Simpatico? Nah. Abile con la rivoltella. Vendicativo. Questo sì. Suo fratello Virgil aveva combattuto la Guerra Civile nelle file unioniste. Poi sceriffi della città. Al profondo Sud mai piaciuta la cosa.
Ike Clanton? Nah. Molto peggio. Davvero sgradevole. Delinquente e privo di umorismo. Retorica e affabulazione da prima del Diluvio. Lombrosianamente criminale.

L’epica è una bella storia, ma abbonda di psicologie poco interessanti. È il regno della forza, della scaltrezza, dove basta un rissaiolo da saloon a eliminare il più sommo tra gli umani. È un divenire di sangue, troppo affidato al caso per premiare i migliori. Figuriamoci gli spiritosi.
Mesi addietro, avevano fatto la pelle al vecchio Bud. 26 kappa, altro che bruschette. Cocchiere di diligenza. Nah. Diavolo di un deserto. Quanti whiskey ti puoi fare con tutto quell’argento.
Alla locanda, un giorno, è arrivato un foresta. Ben vestito. Da regolabarba. Il tipico cittadino del mondo. Mica Cocco Bill, ziopera. E giù col Principe del Galles, i Rothschild. Le passere svedesi. Le ferrovie sono il futuro del business. Un sacco di grana. Woah, un giro a tutti. See. Anche ai balordi dalla camicia bucata.
Due settimane. Eccolo ancora. Scuro in volto. La Perfida Albione temeva l’investimento. Baronetti di sta ceppa. Le rotte commerciali non sono sicure. Cose così. In questo luogo di barbarie pensare che i predoni nuocciano agli affari. Nah. Debosciati delle cinque. Voi e la cup of tea. Tsk, whatever. Vai di Tassoni. Ghiaccio al punto giusto. Oggi, però, ognuno paga per sé.
The Cowboy War, adesso vi spiego
[Voce italiana di Franco De Ceglie]
Col giungere della ferrovia, la Cardinale fece finta di niente e il selvaggio West finì.
Un’epopea, a ogni modo, il cui fascino è nei dettagli, nella quale microcosmo e macrocosmo affrescano quadri d’altri tempi, dove impulsive decisioni individuali innescano catene di eventi collettivi, con ripercussioni sino ai vertici del potere politico e bancario.
Ciascun personaggio ha interessi, motivazioni, bisogni propri. Dai dentisti in fuga a Ovest alle Josephine piene di grazia, dagli avvocati con manie di protagonismo ai titolari della Wells & Fargo, dai ladri di bestiame ai discendenti con il morale facile e i soldi di famiglia.
Dinamiche realiste, che danno profondità alla storia, che la incantano e rendono leggenda, al di là di visioni naïf varie e assortite. E allora i media prezzolati non sono virus da estirpare, ma fisiologica espressione delle sfere d’influenza, come le ostriche nel deserto non sono abomini, bensì realizzazione dell’American Dream di Luther King e soci.
Darwinismo sociale, sia chiaro, dove l’etica, se non mero arbitrio, è comunque quella del più forte, di cui le masse potranno giovare soltanto per contingenza fortunata, nel caso non la subiscano negli effetti distruttivi.
6 puntate, del giusto minutaggio, valorizzate dalla brillante regia di Patrick Reams, nonché dal commento musicale a bordo della wave, il quale, mai invadente, spazia dalla solennità del duello al banditismo guascone, senza rinunciare al tamburo quando serve ritmo alla scena in corso.
Un’ottima serie firmata Netflix, consigliata, un ibrido efficace tra documentario e fiction, in cui attori ed esperti uniscono il diegetico con l’extradiegetico, per dar vita a un prodotto assolutamente interessante in questa fase dell’Industry, in grado di tenere incollati allo schermo gli spettatori per tutta la durata degli episodi.
Fidatevi, davvero. Dopo tanti anni, spero l’onestà intellettuale me la riconosciate.