Al Lucca Film Festival, l’anteprima di Ted Bundy – Fascino criminale. Un film che delude le aspettative, caotico e ambiguo
Era il 24 gennaio 1989 quando Ted Bundy venne condannato alla sedia elettrica, accusato di aver ucciso 35 donne tra il 1974 e il 1978. Dopo trent’anni, si torna a parlare di lui, di uno dei personaggi più controversi d’America e di uno dei serial killer più spietati del mondo. A farlo è il regista statunitense Joe Berlinger, che tra i suoi lavori conta già un notevole numero di film e documentari crime. Tra questi figura anche Conversazioni con un killer: il caso Bundy, presente su Netflix già da fine gennaio. La docu-serie, lunga più di quattro ore, alterna nuove interviste a vecchi filmati e affronta passo passo la vita e i crimini di Ted Bundy. Grazie a un lunghissimo e altrettanto accurato lavoro di ricerca e documentazione, ci viene offerta un’immagine a 360° del celebre serial killer, senza mai scadere nel sensazionalismo o nella leggenda, ma indulgendo molto sul Ted Bundy uomo. Un uomo che appare totalmente scollegato dal mondo reale e perso dentro una realtà edulcorata, riscritta e delirante. Il prodotto finale era quindi un ottimo punto di partenza per il futuro film di Joe Berlinger sull’efferato criminale. Ma, a questo punto, mi ero chiesta: che necessità c’era di fare anche un film, oltre a un miniserie? Realizzare un documentario aveva un senso, in quanto avrebbe fornito a tutti gli appassionati del genere una testimonianza meticolosa sulla vita di Ted Bundy. Anche un film stile Hannibal o American Psycho, anche se poco originale, poteva avere un suo perché e Bundy poteva servire da modello per la creazione di un assassino immaginario. Farne un biopic invece… era davvero il caso? Ted Bundy era un serial killer, non una rockstar. Nonostante queste mie titubanze iniziali, ero curiosa di vedere il film e soprattutto di vedere come se la sarebbe cavata Zac Efron, per me eterno Troy Bolton, in un ruolo del genere.
Diciamo che il povero Zac non è il male peggiore del film. Fin dalle prime scene, appare chiaro che il regista vuole raccontare questa storia secondo una prospettiva diversa: non è Ted Bundy che ci interessa, non la sua pazzia omicida, bensì chi gli è stato accanto e ha vissuto con lui per anni, senza mai sospettare niente, Elizabeth Kloepfer (Lily Collins). La storia tra i due sembra quasi inventata, tanto è perfetta. Si conoscono a un bar, è amore a prima vista e Ted si rivela il ragazzo ideale che tutte vorrebbero: premuroso, affettuoso, dolce e amorevole anche con la figlia piccola di Elizabeth. In poco tempo, Ted entra a far parte della famiglia Kloepfer, come compagno esemplare per Liz e come padre putativo per la bambina. A rompere questo equilibrio apparentemente perfetto è la notizia di un serial killer a piede libero, che semina terrore tra le giovani donne dall’Utah al Colorado. Secondo gli identikit diffusi dai giornali, Ted Bundy condivide una notevole somiglianza con l’assassino e, altro elemento a suo sfavore, anche lo stesso modello e colore di macchina, una Volkswagen Maggiolino. Bundy entra nella lista dei sospettati, anche se fino alla fine non sappiamo come, e viene infine fermato in Colorado nel 1975 per eccesso di velocità. Viene riconosciuto dalle autorità e così ha inizio il grande caso giudiziario, anche primo caso mediatico della storia, contro Ted Bundy.
Le telecamere, sia di allora che di adesso, sono sempre puntate su di lui, su Ted Bundy l’assassino, Ted Bundy l’affascinante affabulatore, Ted Bundy lo spietato o Ted Bundy l’innocente studente di giurisprudenza, Ted Bundy il ragazzo perfetto che mai farebbe del male. Il regista sembra dimenticarsi del suo intento iniziale di dare spazio e valore alla figura di Elizabeth, che rimane in realtà relegata sullo sfondo, un ricordo lontano che riaffiora di tanto in tanto nella storia. Quel che si nota è proprio la totale mancanza di una prospettiva, di una linea guida precisa. Non è Elizabeth che racconta la storia, ma non è neanche Bundy. Percepiamo il tormento interiore di Liz, la vediamo afflitta dai dubbi e dai sensi di colpa, ma il suo ruolo nel film si esaurisce qui. Di Ted, invece, sappiamo quasi tutto, dato che il film ruota intorno a lui. Sappiamo tutto, tranne la cosa fondamentale, che mai viene fatta vedere, né viene chiarita: è o non è stato lui a compiere quegli omicidi? Non si indulge mai su particolari macabri e raccapriccianti, le foto dei corpi non vengono quasi mai mostrate, scene violente non ce ne sono. Questa mancanza poteva essere funzionale se la storia fosse stata effettivamente raccontata da Elizabeth, ma, dato che palesemente non è così, la cosa perde un po’ di senso. Nel film, dunque, le visioni che si intrecciano sono molteplici, cosa che non fa altro che creare tanta confusione e ambiguità, sicuramente sconsigliate per un film del genere su un personaggio simile. Ted Bundy passa quasi per la vittima di turno, accusata ingiustamente e costretta a confessare con la forza. Di fatto, il film non ha una conclusione, non la conclusione che andava inserita, senza se e senza ma. La cosa che colpisce è proprio l’apparente mancanza di accuratezza, l’apparente superficialità. Sarebbe facile accusare il regista di scarsa documentazione, ma così non è, visto anche il notevole lavoro fatto per il documentario. La colpa, quindi, ricade probabilmente sulla sceneggiatura, che sembra rattoppata e unita in qua e là un po’ a casaccio, senza fare troppa attenzione alla voce narrante o a chi deve essere il vero protagonista della storia. Il film sembra quasi lo scarto del documentario.
Purtroppo, i lati negativi non finiscono qui. Berlinger non resiste dall’inserire quelle classiche scene, a mio parere farsesche e poco credibili, dove quel che viene ribadito è: Bundy aveva l’aria da bravo ragazzo, però a pelle, istintivamente, si capiva che qualcosa che non andava c’era. Senza niente togliere alle nostre illimitate capacità intuitive e alla nostra infinita perspicacia, mi sembra una cosa quantomeno improbabile. Non manca quindi il cane che abbaia quando Bundy si avvicina, non mancano le inquadrature insistenti su coltelli da cucina e via dicendo. Francamente, poteva risparmiarsele.
E adesso arriviamo ai nostri attori principali. Lily Collins la liquidiamo in due frasi, un po’ come è stato fatto nel film. Elizabeth rimane un personaggio abbozzato, che niente aggiunge (e niente toglie) alla pellicola, fatta eccezione forse per il finale, dove i primi piani su di lei sono molto efficaci e contribuiscono ad alimentare la tensione. Per Zac Efron che dire, mi aspettavo peggio. Non condivido le opinioni di gran parte della critica, che già l’aveva condannato ancora prima di vederlo. Sicuramente gli manca quell’ambiguità in grado di trasmettere il dubbio sulla sua presunta innocenza o colpevolezza. Anche se, a quello ci pensa già il film. Zac Efron è un ottimo Bundy innocente, un troppo poco efficace Bundy criminale. Bisogna riconoscere, però, che l’attore ha lavorato molto sul personaggio, approfondendo sia il lato psicologico del killer, sia i suoi modi di parlare e di muoversi. Menzione d’onore va fatta, invece, per Malkovich, giudice assegnato al caso, che nonostante non sia una figura centrale nella storia, rimane memorabile.
Qui il trailer: