Dopo aver parlato dell’incontro col regista, ecco la recensione di Santiago, Italia, un documentario che ci porta indietro di 45 anni, quando i militari in Cile soffocarono nel sangue una grande speranza e l’Italia era un grande paese
È il regista che introduce il film, al cineclub Arsenale di Pisa (vedi: incontro con Nanni Moretti: no, il dibattito no). Poi è un’ora e venti di orrore e di nostalgia, per quanto siano due sostantivi che mal si attagliano fra loro. Ma l’orrore è per quello che stava succedendo l’11 settembre a Santiago de Chile, la nostalgia è per il meraviglioso paese che era l’Italia solo 45 anni fa.
L’11 settembre per noi, nuove generazioni, è la data dell’attentato del secolo: l’attentato alle torri gemelle del 2001, ma per la generazione dei nostri genitori è la data di due eventi altrettanto orribili: la strage di Sabra e Shatila, nel 1982 e, ancor prima, la data del golpe cileno, nel 1973.
Seguendo l’esempio Moretti, ho voluto sapere cosa ricorda uno che, all’epoca, aveva 18 anni e che non troverete nel film. Dopotutto anche noi abbiamo fonti di prima mano:
“Nulla ha avuto, nella mia vita, un impatto più forte del golpe in Cile. Il Vietnam, piazza Fontana, l’assassinio di Pasolini, erano solo un’eco che mi risuonava nelle parti periferiche del cervello, ma ero troppo giovane per capirne a pieno la gravità. Il golpe cileno fu quello che ci fece aprire gli occhi: quella gente voleva le stesse cose che volevamo noi e tolsero loro la speranza. Forse nessuno ci crederà, ma ci siamo sentiti come se fosse successo a noi, c’era un’empatia assoluta fra noi e i cileni. È il motivo per cui mi sono laureato in letteratura latino americana e che, ancora oggi mi chiedo come sia potuto succedere, mi ha fatto abbandonare – temporaneamente – i Velvet Undergroud per i Quilapayún. Una musica, francamente, noiosa. Nulla toglie che Victor Jara fosse un grande musicista“.
Il documentario di Nanni Moretti è fatto, essenzialmente, di interviste.
Interviste agli scampati cileni, molti dei quali si sono rifatti una vita in Italia, interviste ai sostituti (proprio allora il titolare era in Italia perché suo figlio stava morendo) dell’ambasciatore italiano in Cile, che decisero, senza esitazione alcuna, di accogliere i molti perseguitati politici nell’ambasciata di Santiago de Chile, sottraendoli a una morte quasi certa e, successivamente, dar loro ospitalità nel nostro paese. Interviste con due aguzzini, uno incarcerato, uno, incredibilmente, libero come l’aria. È proprio durante una di questi interviste che Nanni Moretti pronuncia la frase che sarà ricordata di questo film: “Io non sono imparziale“.
Nella prima parte, i ricordi si soffermano sui fatti relativi al golpe vero e proprio. L’intervento delle forze armate contro il proprio paese; il suicidio o l’assassinio del presidente Salvador Allende, gli arresti, le stragi nei campi di prigionia, il più grande dei quali era nello stadio di Santiago, dove fu assassinato lo stesso Victor Jara. Fra gli intervistati, con l’accento più cileno che più cileno non si può, anche il regista Miguel Littín, che entrò clandestino in Cile per girare Acta general de Chile, azione che fu poi descritta nel libro del Premio Nobel Gabriel García Márquez Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile. E questa è la parte orribile.
La seconda parte è quella nostalgica,
perché dà la misura di quanto sia cambiato il nostro paese in 45 anni. I perseguitati politici cileni trovarono un’accoglienza straordinaria nel nostro paese: fu offerto loro un lavoro, ma non al nero, come si fa oggi, soprattutto nel nord est, per poter sfruttare la mano d’opera a basso costo di gente disperata, ma con contratti regolari. Nessuno dei loro colleghi italiani si meravigliava che fosse loro offerto un lavoro anche di responsabilità, visto che lo sapevano fare benissimo. Nessuno si sognava di dire “prima gli italiani”. In breve tempo i cittadini cileni in Italia si integrarono perfettamente. Anche se avrebbero desiderato tornare in patria, il regime dittatoriale di Pinochet durò per ben 17 anni e così dovettero diventare italiani. La cosa che colpisce di più è che, a parlarne oggi, gli intervistati si commuovono ancora per fatti che sono occorsi ben 45 anni fa. Questo dà una misura di quanto dovettero essere terribili.
L’ultima considerazione, di un cileno immigrato quasi mezzo secolo fa in Italia (non ci potrei scommettere, ma mi sembra uno dei musicisti degli Inti Illimani), ci riempie di sgomento: quanto era simile al Cile di Allende l’Italia degli anni ’70 e quanto è simile al Cile di Pinochet l’Italia di oggi.
Fa male vedere quello che l uomo arriva a fare ad un suo simile….ci vorrebbero ancora più film per ricordare chi eravamo e chi stiamo diventando