Come abbiamo già fatto altre volte, proponiamo una delle preziose interviste di El País, pubblicata prima dell’uscita nelle sale spagnole del film di Polanski, il 1 gennaio. Le condizioni poste al giornalista Guillermo Altares dagli agenti di Polanski sono state precise: non più di venti minuti, relativa al solo film e, soprattutto, niente domande sulle accuse che gli sono state mosse recentemente che il regista, in un’intervista a Paris Match, ha definito «false e aberranti», anche se ha accettato di rispondere alle domande su come tutto ciò ha avuto impatto sulla sua reputazione e sul film.
Altares: Crede che l’affaire Dreyfus continui a essere un caso attuale?
Polanski: Molto. In fondo parla della verità e del modo di stabilire la verità. Se tralasciamo il problema dell’antisemitismo, questo è quello che rimane, è la cosa più importante, in ogni caso.
A. Lei vive in Francia, dove esiste ancora un grande problema di antisemitismo. Questo la riporta ai ricordi più terribili della sua infanzia?
P. Quando giravamo la sequenza dell’auto contro Dreyfus e le scene nelle quali la gente scrive slogan antisemiti sulle vetrine dei negozi, proprio in quel momento, stavano facendo la stessa cosa a pochi isolati di distanza. Hanno scritto jude in un ristorante. Hanno anche disegnato croci uncinate sui ritratti di Simone Veil.
A. È tornato a lavorare con lo scrittore inglese Robert Harris, che aveva già adattato L’uomo nell’ombra. Ha scelto il personaggio di Picquart, l’ufficiale che investiga il caso, come protagonista perché lo è anche nel romanzo dal quale è tratto il film?
P. Non esattamente. Era da tanto che pensavo di dirigere un film sul caso Dreyfus, pensavo che fosse un buon tema per un film. Credo che sia un tema importante, e fare film su temi importanti dà sempre grandi soddisfazioni. Dopo aver collaborato in L’uomo nell’ombra, ho proposto a Harris di lavorare su Dreyfus. Ci siamo messi a scrivere, ma non funzionava. Cercavamo di raccontare la storia dal punto di vista del protagonista e i nostri primi sforzi si concentravano su Dreyfus. Ma poi abbiamo capito che il problema era proprio questo, perché tutto quello che risultava interessante durante il caso succedeva a Parigi, mentre lui stava marcendo sull’Isola del Diavolo. Cosa potevamo raccontare dal punto di vista del confinato? Lo incatenavano la notte, lo liberavano la mattina. Così a Robert Harris venne in mente di adottare il punto di vista di Picquart. Mi sembrò un’idea molto buona, ma era già molto tempo che non lavoravo e gli dissi che, per guadagnarmi il pane, avrei dovuto girare un film. Mi ha detto: ‘Tu fai pure un altro film, io scrivo il libro’. E così abbiamo fatto. Io ho girato Venere in pelliccia e lui ha pubblicato L’ufficiale e la spia. Harris è solito scrivere su fatti storici e si documenta a fondo. Questo ha facilitato la scrittura del copione. Ma il libro lo ha scritto dopo la prima bozza.
A. Georges Picquart è un antisemita che non difende Dreyfus perché pensa che sia scandaloso che un innocente stia in prigione, ma per difendere l’Esercito. Alla fine diventa un eroe, ma, crede che sia un eroe per sbaglio?
P. È un eroe, è qualcuno che è giusto perché il suo obiettivo è difendere la verità. Mi piace molto una delle sue battute: “Avrei preferito che fosse colpevole perché la vita sarebbe molto più facile ”.
A. E crede che la verità sia in pericolo in questi tempi?
P. Senza dubbio, assolutamente. La verità non esiste, c’è solo quella che chiamerei postverità. Importano solo le emozioni. La verità storica o scientifica non ha nessuna importanza. Diciamo che qualcosa è vero perché ci torna comodo. È una cosa molto triste. Credo che la verità storica o scientifica non abbia nessuna opportunità in una società come la nostra.
A. Lo dice anche per le accuse che le hanno rivolto? Si è chiesto perché quasi nessuno le crede?
P. È da molto tempo che sono vittima di menzogne.
A. La preoccupa che il film sia una metafora del suo stesso caso?
P. È veramente aberrante e stupido dire che credo di essere Dreyfus. È un’altra menzogna, un altro modo di insultarmi.
A. La preoccupa che tutto ciò influenzi il modo di vedere questo film e anche come si guarderanno i suoi film in futuro?
P. Dipende dallo spettatore. Non si può generalizzare. Non si può fare d’ogni erba un fascio.
A. Dreyfus, che è senza dubbio la vittima, non è un personaggio simpatico.
P. Questo è un altro motivo per cui non funzionava all’inizio, perché non era simpatico. Era molto freddo. Era un altro dei motivi fondamentali per raccontare questa storia da un altro punto di vista, non dal suo.
A. C’è una scena nella quale Picquart va a visitare il suo predecessore nei servizi segreti e questi si lancia in un discorso in cui dice che non riconosce la Francia perché è piena di stranieri. Non le sembra di stare ascoltando qualcuno del Fronte Nazionale?
P. Non solo i documenti che appaiono riprodotti nel film sono esatti: tutto è autentico in questo film. La maggioranza dei dialoghi sono, almeno basati, sui dialoghi autentici. Siccome il caso passò per diversi procedimenti giudiziari, tutto fu stenografato e si può reperire quello che è stato detto. Abbiamo ricostruito dialoghi che sono veritieri.
A. Pensa che ci sia qualcuno, attualmente in Europa, che abbia la forza morale che dimostrò Émile Zola in questa storia?
P. Me lo chiedo anch’io, se una persona così appartenga più al passato che al mondo di oggi. Sinceramente non posso rispondere a questa domanda, perché spesso ci dobbiamo sorprendere dell’eroismo di certa gente.
A. Sta lavorando a qualcosa in questo periodo?
P. No, mi dispiace, non sono quel tipo di regista che riesce a pensare a un’altra pellicola quando è ancora coinvolto nella precedente. Il film è qualcosa che mi è successo. Mi assorbono tanto le riprese che non riesco a concentrarmi in nient’altro.
A. Ha dovuto impegnarsi particolarmente per far avvicinare al film? Nel senso: se si legge J’accuse oggi, il caso è così complesso che può risultare difficile da capire.
P. Abbiamo studiato moltissimo. Ho molti libri su Dreyfus, non tutti perché ne sono stati scritti più di 500. Da un secolo non hanno ancora smesso di scrivere saggi sul caso. Abbiamo cominciato a lavorarci sette anni fa. Abbiamo semplificato alcune cose e ci siamo concentrati sull’essenziale.
A. Crede che sarà possibile vedere il suo film negli Stati Uniti?
P. Non lo so. Bisognerà chiederlo ad altri. Facciamo film perché la gente li vada a vedere e la speranza di ogni regista è che più gente possibile vada a vedere il suo lavoro. Non sono diverso dagli altri.