Presentato al cineclub Arsenale di Pisa Ride, alla presenza del regista, che ha introdotto il film e ha risposto alle domande degli spettatori
Prima di iniziare a raccontare l’incontro con Valerio Mastandrea, vorrei solo scrivere qualche riga per ringraziare l’Arsenale di Pisa. In questi ultimi mesi ha permesso a me, come a tanti altri, non solo di guardare un film, ma anche di incontrare chi sta dietro al film. Con questo, sono già tre gli incontri a cui ho partecipato. Il primo è stato con Alessio Cremonini, regista di Sulla mia pelle e il secondo con Nanni Moretti, per la proiezione del film Santiago, Italia. Sono sempre uscita dalla sala portandomi dentro qualcosa in più. Non solo una comprensione più profonda del film, ma anche altri punti di vista, idee, riflessioni. Una visione a 360° di cosa sia il cinema, di cosa voglia dire fare film, del lavoro che vi sta dietro.
Del film Ride ho già ampiamente parlato nella recensione, che trovi qui. Adesso voglio lasciare la parola a chi il film l’ha pensato, costruito e girato, Valerio Mastandrea. Prima della proiezione del film, entra, saluta il pubblico e introduce brevemente il film:
“Sto accompagnando il film in giro per proiezioni indipendenti e corsare come questa. Questo è il mio primo film, non so se sarà l’ultimo. Però l’aspetto più bello di questa esperienza è proprio l’incontro che uno ha con il pubblico; anche il film lo capisco molto meglio parlandone. Sono contento di quello che ho fatto, nonostante riconosca la difficoltà di certe tematiche e anche l’entusiasmo che uno mette nei primi film e lo mette attraverso il metterci tanta roba tanti temi, tante sfumature. Il film ha una grossa ambizione, che è quella di raccontare una cosa molto forte, un tema molto grande che riguarda tutti prima o poi. Vuole farlo, però, con uno sguardo diverso, con quello della nostra protagonista, un personaggio femminile fuori dagli schemi. Mi sono permesso di raccontare una donna normale, una persona che guarda il mondo come lo guarderemmo tutti“.
Con queste parole ci lascia, per poi ritrovarci a fine proiezione, per rispondere alle nostre domande e parlare del suo film. Se già era tanta l’emozione di avere il privilegio di incontrare Mastandrea, lo è stato ancora di più sentirlo raccontare il film, subito dopo averlo visto. Come avrete modo di leggere nella recensione, Ride è un film molto forte, che affronta una tematica difficile e lo fa con tanta umanità. Le cose su cui riflettere sono tante, le sfumature da notare anche, e sicuramente le parole del regista sono state preziose anche per comprenderlo a fondo, come meritava.
La prima domanda verte sull’importanza della musica nel film:
Tanta è la musica, si vede che hai scelto dei pezzi del tuo cuore, che hai fatto una selezione più con il cuore che con la testa. La musica funziona molto per contrasto. Un pezzo come Danicng with tears in my eyes degli Ultravox, in una scena in cui lei non riesce a piangere, si sforza, ci prova, con sottofondo un testo che dice “danzando con le lacrime nei miei occhi”: quello che le canzoni raccontano è esattamente il contrario di quello che le immagini mostrano, ma il mix tra le due cose è fortissimo.
“Volevo che la musica rappresentasse quella famiglia, quella casa, la musica che si ascoltava in quella casa. E’ una musica abbastanza larga, non commerciale, di gente a cui piace la musica. La stessa cosa la volevo per la casa; l’avete vista, racconta la famiglia, quei personaggi. Per noi girarci era difficilissimo perché era molto strana, ma doveva essere quella, per com’era arredata. E’ stato un lavoro molto accurato. E così con la musica. A volte è come se il personaggio mettesse la colonna sonora alle situazioni per permettersi di provare delle emozioni in più. Cosa che non succede quasi mai. La musica è tutta musica sua. Il primo brano è un pezzo che ha scelto per quello che dice. Il pezzo di Arthur Lee, Everybody’s gotta live, è stato casuale. Volevo una canzone dei LOVE, l’ho cercata e cercata e alla fine è sbucata questa. E mi è sembrata adatta. Diceva “tutti dobbiamo vivere, ma tutti dobbiamo morire”. La musica era un personaggio, vestiva il personaggio“.
Ride è una storia di elaborazione del lutto, per tre personaggi con età diverse. Poi abbiamo un personaggio che a un certo punto di inserisce, il fratello del morto. Quando ci spostiamo sull’incontro tra il fratello e il padre, a distanza di tempo, un po’ per il luogo in cui lo hai girato un po’ per questo mix di violenza verbale, ma anche fisica, mi hanno ricordato Claudio Caligari, che è il tuo mentore, la persona a cui sei più legato cinematograficamente.
“Non per questo vuol dire che lo posso citare. Claudio bisogna capirlo, conoscerlo, studiarlo e io non ho avuto questa perseveranza, è semplicemente una persona a cui devo tanto, anche da un punto di vista personale. Penso che in questo film ci siano tanti registi con cui ho lavorato, ma senza accorgermene. Anche i registri sono tanti; lo scopo di questo film era affrontare un tema forte come lo scippo a cui possiamo essere sottoposti in quest’epoca, uno scippo anche del diritto a provare delle emozioni base, come la gioia e il dolore. Lei è stata scippata di questo diritto dalla sensazionalismo della morte di Mauro. Sensazionalismo solo del momento; anche la gente che va da lei a dimostrarle affetto, è gente che piange, ma solo per se stessa. Il tema era come anche persino per questo tipo di mozioni, che sono emozioni base, come la gioia, il dolore, la paura, oggi siano complicate. Come sia complicato addirittura stare male come uno vorrebbe. Io sono partito dal voler raccontare questo, di quanto persino nel vivere il dolore si possa essere condizionati da come la società si comporta, come il contesto si comporta nei tuoi confronti. Qui il contesto era motivato e condizionato dal fatto che c’era una morte sul lavoro, morti che continuano a succedere, che sono ingiuste più della morte stessa ed è una cosa inaccettabile. Mi interessava il percorso di questa donna, di questa famiglia, di un bambino che per difendersi inventa la menzogna più grande del mondo, ma solo come arma di difesa, una delle tante armi che i bambini hanno contro i traumi della vita. Poi c’è la linea del vecchio, a cui è stata affidata la piccola, grande, riflessione politica sul momento, sulla vita di quest’uomo che mette in discussione quello ce ha fatto. La domanda del collega “non siamo serviti a un cazzo?” è una domanda che ogni classe dirigente dovrebbe farsi. Su come si lavora oggi, se è giusto lavorare così. Prima il lavoro era progettualità, affermazione, identità, adesso è quasi una condanna a morte. Sia per la precarietà che per la velocità con cui bisogna produrre. Quindi mancano le misure di sicurezza, se ne fregano tutti e muori“.
Perché tanti attori sono spinti a fare un proprio film come registi? Lo si fa perché si vuole tirar fuori qualcosa che quando si è nelle vesti di attori non si può fare?
“Ho fatto questo film a 45 anni perché immagino che non mi bastasse più, rispetto a un tema così, a una storia così, essere attore di quella cosa, quindi agire per conto di qualcun’altro. Mi sono assunto una nuova responsabilità e volevo la libertà di esprimere da questa angolazione questa storia. Ho avuto una storia in mente e la volevo girare io. Ho capito che l’attore ha una responsabilità al bisogno, servi in quel momento, metti tutto te stesso, e poi continui con la tua vita. La regia ha una responsabilità totale su tutto quello che si muove e ha la responsabilità di veicolare il tema del film, il racconto allo spettatore. Quando vedi un film, vedi il regista, lo senti, senti la sua personalità. Per certi aspetti è bello perché riconosci un segno, per altri è anche invadente, quando senti che il punto di vista si impone. Io penso che lo spettatore deve essere libero di interpretare il racconto, di vedere quello che vuole. Quindi, la responsabilità è quella di essere la molla che fa scattare tutto, ma di non essere troppo decisivi per la libertà del gruppo. Questi sono i registi che piacciono anche a me, con cui mi piace lavorare“.
Quali consigli daresti a registi emergenti? Hai riscontrato problemi nel girare questo film o se stato in qualche modo avvantaggiato grazie al tuo nome?
“Ho sicuramente riscontrato meno difficoltà di altri, ma non perché sono già famoso, ma perché conosco il mestiere da tanto tempo e mi sono messo vicine delle persone che sapevo come avrebbero lavorato. Sull’andare all’estero, qualche anno fa avrei detto andate, sbrigatevi, scappate, ma non mi sento più di dirlo. Qui c’è una guerra da combattere, da un punto di vista culturale. Che poi sono le sole battaglie che andrebbero combattute. Studiare fuori per arrivare qui preparati è un discorso, studiare fuori per rimanere fuori secondo me è un peccato. Questo è un paese in cui il cinema è nato, in cui lo sappiamo fare molto bene se messi in condizione di farlo. In tanti anni che faccio questo mestiere non sono mai mancati i registi, gli attori, le idee, le professionalità del cinema. Il problema è che un ceto tipo di cinema, come questo, non trova più spazio. Penso, quindi, che di battaglie ce ne stanno tante“.
Che peso hai voluto dare alla morte in Ride?
“Non mi sentirei di dire che esistono delle morti giusti e delle morti ingiuste, però la scena finale, in cui Caterina realizza che cosa le ha detto il marito prima di andare a lavorare, prima di morire, serve a far capire che lui non le ha detto niente. Perché quando si va a lavorare, non si può morire. Il peso che gli ho dato è questo. Ci sono situazioni in cui non si può morire, non si deve morire e si deve fare di tutto perché non accada“.