La donna che canta: Con un inizio frenetico ed una conclusione a dir poco sconvolgente, questo film di Villeneuve è un film di altissimo livello che riesce a mostrare tanta violenza riuscendo però allo stesso tempo a mantenere sempre rispetto della difficile situazione dei suoi personaggi.
Basato su un’acclamata opera teatrale di Wajdi Mouawad, il film di Denis Villeneuve narra una storia che si dipana come un puzzle estremamente complesso; solo sistemando tutti i pezzi nella loro giusta posizione possiamo scoprire il filo conduttore di tutta la vicenda. Tutto inizia nello studio di un avvocato di Montreal quando ai due gemelli adulti, Jeanne (Melissa Desormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette), vengono consegnate le ultime volontà della madre, Nawal (Lubna Azabal). L’avvocato gli consegna non una ma ben due lettere: una da dare ad un padre che pensavano fosse morto e l’altra ad un fratello di cui scoprono ora l’esistenza. I due reagiscono in modo completamente diverso, Simon prova ancora dei risentimenti nei confronti della madre appena morta e questa richiesta non fa altro che rafforzarli, Jeanne invece ne rimane incuriosita e decide di intraprendere un viaggio per il Libano per cercare di localizzare suo padre e suo fratello e togliere quest’ultimo velo nella vita di Nawal.
Da qui il resto del film si sposta in Libano alternando le ricerche di Jeanne alla vita di Nawal in quel paese prima della nascita dei gemelli. La donna che canta è un racconto sulla famiglia, sull’identità e sulla ricerca di un perdono.
Denis Villeneuve non nasconde che questo è un adattando di una rappresentazione teatrale, lo mette in evidenza inserendo le intestazioni dei capitoli in grassetto rosso sullo schermo, un appiglio a cui aggrapparsi mentre ci immergiamo sempre più in profondità in questo mistero, noi non sappiamo dove stiamo andando ma la sensazione che il film sappia esattamente dove è diretto ci fa sentire sempre un pò tranquilli. La donna che canta può essere paragonato ad un film poliziesco, dove chi è vivo deve correre velocemente alla ricerca di una verità che non sapevano di dover conoscere. I gemelli cresciuti Jeanne e Simon Marwan devono scoprire i confini in cui si muove la loro famiglia e dei segreti così profondi ed oscuri che difficilmente potrebbero essere immaginati.
“La guerra ha una logica spietata”, dice un ex signore della guerra.
Questa storia giunge ad un climax che qualcuno potrebbe credere poco verosimile ma che in ogni caso ti fa vacilla e sconvolge. L’intera narrazione sembra governata da una forte forza di gravità, la si percepisce scorrere in ogni frame, è quella forza che spinge sia noi che i personaggi ad arrivare al nodo centrale. Puoi iniziarla a sentire già dalla prima scena, permeata dalla canzone dei Radiohead mentre un gruppo di giovani ragazzi fissa la telecamera e figure anonime radono le teste di questi bambini. Come un piccolo sasso che cade su un dirupo creando una frana, allo stesso modo lo fa questo microscopico evento con l’intera trama del film. Solo alla fine con i resti per terra riusciamo a capirne il nesso.
Anche se le sue prime scene si svolgono in Quebec e sappiamo la provenienza di Nawal, gran parte degli eventi de La donna che canta sfuggono a una specifica impostazione geopolitica. Mentre Jeanne scopre aspetti della storia della vita della madre, la storia inizia ad assume una qualità allegorica. La defunta Narwal diventa essa stessa un’eroina nella storia allo stesso modo in cui lo sono i suoi figli: ogni volta che Jeanne mette alla luce nuove informazioni noi assistiamo a nuovi flashback della donna che ci fanno vedere le disavventure in cui ha dovuto lottare per poter sopravvivere.
La sceneggiatura di Denis Villeneuve evita di proposito di nominare la guerra devastante che allontana Nawal dalla sua famiglia per trasformarla alla fine in una torturata prigioniera di guerra. Di conseguenza, La donna che canta sembra voler parlare non di un particolare conflitto, non di una particolare storia ma dell’impatto che le guerre possono avere nelle vite personale di chi li vive arrivando anche a toccare le generazioni successive ad essi. La guerra viene vista come un rivolo d’acqua che scivola sotto terra, di cui apparentemente non vediamo nulla ma che può riemergere dal sottosuolo anche a miglia di distanza dalla sua foce.
“A volte, è meglio non sapere”, un veterano del Medio Oriente dice a Jeanne
Queste sono le parole che si sente dire Jeanne quando è vicinissima a scoprire quella verità cruda su suo padre e le origini sue e di suo fratello. Jeanne però sa bene di non avere più una scelta da poter compiere, l’unica strada da imboccare ora è quella della conoscenza.
Il tema più profondo e insito nel film va ben oltre la violenza riuscendo quindi ad essere decisamente più universale e comprensibile: è quello che in realtà conosciamo ben poco di cosa siano stati i nostri genitori prima della nostra nascita, ne abbiamo solo la più vaga e sfocata idea. Noi pensiamo di poter sapere come si possano essere svolte le prime vite dei nostri genitori, ma per entrare veramente negli ambienti e nelle vicende che li hanno formati è necessario fare un enorme balzo con l’immaginazione e non sempre questo è possibile. Questa è l’odissea che Jeanne intraprende, e alla fine attira noi e Simon a unirsi a lei.
Nonostante i forti richiami alle sue origini teatrali La donna che canta ha dentro di sé delle sequenze decisamente cinematografiche. Una di queste è sicuramente la scena del bus, il flashback in cui assistiamo all’attacco delle truppe cristiane contro un autobus pieno di musulmani. Alla fine del film è una delle sequenze che ci rimangono più vivide nei nostri ricordi, una delle scene più potenti e violente messe in scena nel cinema di guerra di questi ultimi decenni.
Le interpretazioni di Azabal, Gaudette e Desormeaux-Poulin e la struttura della narrazione sono così convincenti e ben fatte che dimentichi a fine visione di essere stato incollato al divano per più di due ore. Sei anche tu insieme a Jeanne e Simon alla ricerca di quella verità che alla fine il resto passa in secondo piano.