Dopo averlo presentato in un articolo precedente, vi offriamo la recensione di Quello che non so di lei. Un film inquietante, dove realtà e finzione si mescolano indissolubilmente, lasciando lo spettatore immerso nei dubbi.
L’ultimo film di Roman Polanski, tratto dal romanzo di Delphine de Vigan, D’après une histoire vraie, può essere letto in molti modi; come metafora del processo creativo, come allucinazione schizofrenica o come realtà effettuale.
Vediamo intanto la trama:
Delphine, interpretata dalla moglie di Polanski, Emmanuelle Seigner, ha avuto uno strepitoso successo col suo primo romanzo, costruito sulla figura della madre. Tuttavia, alcune lettere anonime che l’accusano di aver messo in piazza i fatti di famiglia, la mettono in crisi e la donna viene colpita dal cosiddetto “blocco dello scrittore”.
E qui si aprono le mille e una domande di noi spettatori:
Elle non era che la ghostwriter di Delphine? Tutte le vicende presenti nel libro, allora, non sono altro che i ricordi di Delphine, che lei ha però proiettato su Elle? Il libro lo ha scritto Delphine in uno stato psichico sospeso? Esiste davvero Elle? È un Doppelgänger? Un amico immaginario? Un pooka? O è la scrittrice stessa?
Una cosa che lo spettatore realizza solo alla fine del film, quando ormai l’epilogo ha suggerito un’interpretazione metaforica o schizofrenica di tutta la storia, è che Elle viene vista solo da Delphine. Non è mai presente quando ci sono altre persone o, almeno, non si accorgono che ci sia. Eppure tante cose non sarebbero potute succedere se Elle non ci fosse effettivamente stata.
Ma parliamo ora delle nostre ipotesi, che ci riportano alla mente film noti
Partiamo, per prima cosa, da un altro film dello stesso Polanski, Ghostwriter – L’uomo nell’ombra. Nel film Ewan McGregor è un ghostwriter, al quale viene affidato l’incarico di scrivere l’autobiografia dell’ex primo ministro inglese (Pierce Brosnan). Lo scrittore, ben presto, viene a conoscenza di tutti i lati oscuri, tenuti nascosti, che hanno permesso al ministro di arrivare al potere. Finisce, così, con l’essere perseguitato dal suo stesso committente, in un’angosciante caccia all’uomo. In Quello che non so di lei, Polanski sembra rovesciare la situazione, dal momento che è la ghostwriter che, pur di immedesimarsi completamente nella scrittrice, finisce col plagiarla. In questa ipotesi, il punto di vista attraverso il quale noi leggiamo il film non è più quello di Delphine, bensì quello di Elle. Non sarebbe più, quindi, la storia di una scrittrice in crisi, che trova in un’amica prima un supporto poi una persecutrice. Diventerebbe, piuttosto, la storia di una ghostwriter disposta a tutto pur di portare a compimento la sua opera.
Un secondo esempio che torna alla mente è Misery non deve morire. Nel film, come nel libro di King, un famoso scrittore viene avvicinato da una fan entusiasta, come in quest’ultimo film. Se all’inizio sembra un rapporto basato sull’ammirazione, ben presto diventa un rapporto morboso, dove vengono alla luce tutte le ossessioni della donna. Lo scrittore rimarrà intrappolato nella pazzia dell’ammiratrice e dovrà faticare per liberarsi di lei. Quindi, uno scrittore e una sua fan. Un rapporto inizialmente normale, che diventa poi ossessione e persecuzione. Questa è una lettura possibile anche per il nostro film. Infatti, se inizialmente Delphine vede in Elle un’amica e un aiuto in un periodo difficile, alla fine è costretta a sfuggirle. Ma forse quest’ipotesi è la più banale e riduttiva.
Ma passiamo ora all’interpretazione che trovo più intrigante e che mi è subito balzata in mente appena finito il film. Delphine si è immaginata tutto? Elle non è altro che un’allucinazione schizofrenica? O un modo per superare i tanti traumi del suo passato proiettando i suoi problemi su un personaggio inventato?
E anche il nostro film potrebbe essere così interpretato. Come una scrittrice che si immedesima nella sua opera così tanto da reificare la propria protagonista. Così tanto da non distinguere più realtà da finzione. Così tanto da non distinguere neanche se stessa dal suo personaggio.
Ma, nonostante queste ipotesi e le tante altre che uno spettatore può essersi creato, il finale rimane comunque un mistero. Nessuna interpretazione torna con il finale. C’è sempre un elemento che stona, un qualcosa di incongruo, di insensato.
E questa è la grandezza di Polanski.
Se si passano in rassegna i suoi film precedenti, si trovano infiniti punti di contatto col suo ultimo lavoro. Perché questa è la poetica di Polanski. Non dare nulla né per scontato, né per necessariamente vero. Il regista si diverte a deludere le aspettative: quando ormai il gioco sembra scoperto e crediamo che Elle voglia mettere fuori combattimento Delphine, la costringe ad andare in cantina a piazzare trappole per topi. Credo che non ci sia stato spettatore che non abbia pensato che l’avrebbe rinchiusa. E invece non succede nulla. Tutto il film è un continuo giocare con il pubblico, un continuo confondere le idee. E proprio in questo sta la bellezza di un thriller costruito magistralmente.