(Al momento in cui scrivo, Pelé è disponibile su Netflix, Prime Video e Tim Vision).
Sarà stata l’idea di Monaco, ma pensare alla prima visione di Pelé suscitava in me un’unica reazione: il peggior film mai prodotto nella storia. Fino a ieri era così, roba da battutacce con i magazzinieri. Autocelebrativo, non solo storicamente falso ma pure inverosimile, con una sceneggiatura elementare che non rendeva giustizia al più grande calciatore brasiliano di tutti i tempi.
Quando si ha la testa tra le nuvole, tuttavia, scollegati dal mondo e in modalità aereo, ci si intrattiene con ciò che passa al convento, e sul mio device avevo a portata esclusivamente questo orrore.

Un’ora e 43 minuti di pellicola, forse troppo, in ogni caso in tema, dati i propositi di riscatto nell’immediato futuro, con la certezza, ma che dico, sicumera, che fosse perfetta in sottofondo per conciliare il sonno.
E invece, per la legge secondo cui è impossibile addormentarsi se lo si vuole spasmodicamente, sono arrivato in dirittura d’arrivo, al traguardo della finale di coppa, con annessi titoli di coda, costretto, peraltro, a ricalibrare il precedente giudizio. Pelé, infatti, non è orrendo. Molto più prosaicamente, bontà sua, è soltanto pessimo.
Pelé, dal disastro casalingo al sogno mondiale
L’edizione di casa fu una debacle clamorosa. Non una finale, come erroneamente messo a schermo, ma lo shock per il paese fu enorme lo stesso. Presi a calci, trattati da cani randagi. Inutile dire che la pellicola dei fratelli Zimbalist non è in grado di restituire il dramma del momento. Non che avessi dubbi a riguardo. Mamma mia.
Pelé, nemmeno 10 anni, segue la radiocronaca dalla feritoia del tetto, al fianco dei compagni di merende, con gli adulti, tra cui suo padre, vicino all’apparecchio.
Gol contro il Brasile. Manco citata a voce la squadra vincente, se non nella confusione del commento. Che modo di fare film. Che dialoghi ingessati. Papà, ti prometto che vincerò io la Coppa del Mondo. No, dà retta a tua madre. Concentrati sullo studio e diventa un impiegato qualunque.
Monito comprensibile, quello del genitore, in un universo narrativo in cui il figlio, non si capisce perché, gioca a calcio né meglio né peggio degli altri pischelli delle favelas di Bauru, suoi compari di scorribande per i vicoli cittadini, a inseguire i sogni di un pallone di stracci.
E no, non spenderò una parola sulla sciatta rappresentazione di José Altafini, aka Mazzola, persona che conosco personalmente e posso definire garbata e per bene, dipinta come il riccone che non era, il quale maltrattava Pelé suo domestico, follia. All’epoca abitavano pure a centinaia di chilometri di distanza -.-.
A ogni modo, andiamo alla morale del film. Qual è la morale del film? La morale del film è quella ipostatizzata dalla Ginga. D’uopo una breve spiegazione. La Ginga nasce tra i neri delle piantagioni, e origina dai movimenti di bacino che gli schiavi mettevano in atto per sfuggire alle botte dei padroni, tipici anche della capoeira.
Applicati al calcio, consistono in un modo di giocare estroso, di esaltazione individuale e dribbling ubriacanti, la classica immagine da spot Nike anni ’90, metafora del credere in sé stessi e nel proprio modo di stare al mondo, al netto di ciò che impongono i modelli esterni.
Ed è così che il piccolo Dico si trasforma in Pelé, da brocco assoluto a giocatore senza eguali, in uno schiocco di dita, con tanto di slow motion a sottolineare l’avvenuta illuminazione. Quelli del Santos, club a cui legherà la carriera, non possono fare a meno di notarlo.
L’obiettivo per i mondiali di Svezia, dopo tante delusioni, è uno solo: vincere. Facile, nell’idea dei registi, se c’è in squadra uno che scarta tutta la difesa avversaria tra palleggi e sombreri, per poi tirare bombe sotto l’incrocio in acrobazia volante.
(Quando lo ordini su Wish: doppio pallonetto ai difensori francesi, e rovesciata dove le sciure del Caribe nascondono le pozioni).
(Quando ti arriva a casa: cross a caso, papera del portiere francese, Pelé appoggia a porta vuota).
Quasi superfluo aggiungere che è un’opera che sminuisce gli altri fuoriclasse del Brasile, che i verdeoro sono presentati come underdog coreani quando è evidente il contrario, che il buon Colm Meaney, il quale notoriamente ha financo una compagna giapponese, afferma cose che mai direbbe da capo allenatore della Svezia. Quasi superfluo aggiungere tante cose.
Ma brutti film a parte, ecco il carrello, finalmente a destinazione. Chissenefrega di O Rey, ormai testa ai prossimi impegni. Piuttosto Larry, tell mi abaut, come siamo messi coi vini?