(Nel momento in cui scrivo, Paradise è al 5° posto dei più visti su Disney+).
Cinque anni dopo, davanti al cadavere del Presidente, l’agente speciale Xavier Collins avrebbe ricordato l’incontro ufficiale in cui Cal Bradford l’aveva invitato a togliere le scarpe.
Un progressista del sud il nostro Cal, appena rieletto al secondo mandato alla Casa Bianca. Un tipo pieno di spirito, interpretato da James Marsden, che si diverte a burlare la nuova guardia del corpo con improbabili test. Uno che piace alle persone, di una franchezza fuori dalle righe. D’altronde lui, miliardario di famiglia, non ha fatto carriera seguendo le regole.
Sempre con sigarette e whisky a portata di mano, ora si trova riverso sul parquet della camera da letto, colpito alla tempia da un oggetto contundente che lo ha lasciato in una pozza di sangue.
Sarà compito di Xavier, il protagonista incarnato da Sterling K. Brown, risolvere il mistero dietro a un assassinio tanto illustre.
(Wildcats è a terra…).
Paradise, molte storie ma un unico affresco
Ideati da Dan Fogelman, gli 8 episodi di Paradise scorrono sull’equivoco di un dramma collettivo, in cui la comunità, nel suo complesso, resta particolarmente scioccata.
Una narrazione ricca di flashback, che esplora il background dei personaggi e gli eventi che hanno condotto alla tragedia, con la costruzione di un intreccio curato in ogni minimo dettaglio.
Questa è certamente la forza della serie targata Disney+, con i frequenti salti nel passato che affascinano e danno ritmo, attivati dai trigger che gli stessi soggetti della storia vivono sulla loro pelle.
Un’atmosfera di mistero, in contrapposizione a una apparente normalità, in cui il buon Xavier, più ingessato che davvero carismatico, indaga nella quotidianità di un jogging mattutino o di una colazione light coi figli, con i quali è molto protettivo data la scomparsa della moglie.
Una situazione in cui tutti sono indiziati, dalla scorta presidenziale, Xavier compreso, fino a Samantha Redmond, la miliardaria tech interpretata da Julianne Nicholson, il cui alias, Sinatra, in 8 puntate non mi è ancora chiaro del tutto dove origini.
Cinica ma fragile, come sovente accade a quei livelli, l’imprenditrice è legata a doppio filo al governo. Con la sicumera di chi si ritiene una presidente ombra, infatti, Sinatra si muove liberamente sulla scena del delitto, luogo precluso financo alla First Lady, già in aria di divorzio, per la verità, da quel briccone di Cal.
Caratteristica di Paradise, come accennato, dunque, è la coralità della vicenda, peraltro accentuata dalle puntate focalizzate sui singoli personaggi, in cui viene appositamente dipanato passato e (talvolta) destino ultimo degli stessi.
Una regia visivamente valida, inoltre, gioca con suggestivi effetti di luce, accompagnati dalle ottime musiche del compositore Siddhartha Khosla, già Emmy Award per le melodie di Only Murders in the Building.
Ma la vera colonna sonora dell’opera, forse, è quello che Jeremy, insopportabile figlio di Cal, definisce lo schifoso rock anni ’80 e ’90 (che tanto male non era, anzi…).
E così abbiamo le cover di Eye of the Tiger dei Survivor, di We Built this City degli Starship, ma, soprattutto, di Another Day in Paradise di Phil Collins, il cui titolo e cognome dell’artista sono chiari riferimenti all’opera recensita.
Paradise, forti pregi ma coi suoi difetti
Riguardo ai pregi di Paradise si è già accennato, una storia più interessante per il modo in cui è raccontata che per cosa è raccontato, con un intreccio superiore alla semplice fabula, in grado, quindi, di regalare sorprese.
Aspetti visivi e musicali a parte, poi, alcuni personaggi funzionano bene, si pensi in primis al Presidente Bradford e, forse in misura minore, a Sinatra. Tuttavia non sempre gli altri protagonisti paiono agire coerentemente al contesto, e ciò riguarda (anche) lo stesso agente Collins, con ingiustificate sopravvalutazioni antitetiche all’emergenza in corso o comportamenti privi di logica.
Non un pessimo personaggio Xavier, per carità, sia chiaro, ma nemmeno entusiasmante, di certo poco iconico, quasi formale anche negli afflati di ribellione, nonostante le citazioni di Die Hard mutuate da Cal.
Stenderei, mi spiace dirlo, un velo pietoso sui personaggi adolescenti della serie, ragazzini senza né arte né parte che pensano di essere svegli, ma che sono il nulla cosmico, quasi quanto l’antipatico trombone alla conferenza sul clima.
Insomma, non tutto è avvincente, ci sono sequenze noiosissime, a volte la serie perde il ritmo, certe altre cade in isterie senza senso. Ma ciò che c’è di positivo, a mio parere, è buono abbastanza per poter chiudere un occhio, per un prodotto assolutamente godibile, uno dei migliori di questo inizio di 2025 qui su Disney+.