Gli Stati Uniti e Hollywood sono sempre stati, nell’immaginario collettivo, i punti di riferimento del cinema mondiale. Senza nulla togliere al neorealismo italiano, alla nouvelle vague francese, o al new cinema britannico, che hanno avuto la loro influenza nel modo di concepire e realizzare i film. Alla fine si tornava sempre oltreoceano e in particolare verso il premio Oscar, questo trofeo tanto vituperato eppure così ambito, anche da coloro che, per un motivo o per l’altro l’hanno disprezzato (Luis Buñuel) o addirittura rifiutato (George C. Scott e Marlon Brando).
Ogni cambio delle regole per la partecipazione o l’assegnazione delle statuette ha sempre suscitato un certo scalpore, fin dagli albori: non dimentichiamo che già la prima edizione presentò il caso spinoso de Il cantante di Jazz reo di ‘concorrenza sleale’ agli altri film in gara, in quanto primo film sonoro della storia. La commissione lo ammise con una sola nomination per il miglior adattamento, salvo risarcirlo con un Oscar speciale ai fratelli Warner, produttori della pellicola “per aver prodotto il pionieristico ed eccezionale primo film sonoro, che ha rivoluzionato l’industria cinematografica.”
A quel tempo un aggiornamento delle regole era apparso necessario, causato da una rivoluzione tecnica, ma oggi la situazione è molto diversa. L’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, con una decisione senza precedenti, ha stabilito nuovi requisiti per favorire l’equa rappresentanza di origine, genere, orientamento sessuale e persone con disabilità. I lungometraggi dovranno rispettare i nuovi standard per essere candidabili all’Oscar come miglior film, almeno a partire dell’edizione 2025, per i film realizzati nel 2024. Il provvedimento riguarderà non solo gli attori sullo schermo, ma anche i membri dello staff tecnico scelti per l’opera che dovranno adeguarsi ad almeno due delle caratteristiche elencate in precedenza: si vuole così dare rilevanza a quelle categorie di persone considerate svantaggiate nell’industria cinematografica: donne (!), minoranze etniche, appartenenti alla comunità LGTBQ+ e soggetti affetti da disabilità. Un interrogativo a questo punto è legittimo: può l’inclusione essere imposta dall’alto? Secondo David Rubin, presidente dell’Academy e il ceo Dawn Hudson evidentemente sì, a quanto risulta da una recente nota congiunta rilasciata alla stampa: “Riteniamo che questi standard di inclusione saranno un catalizzatore per un cambiamento essenziale e duraturo nel nostro settore”.
Hello Orwell. Thank you for the foresight
— Kirstie Alley (@kirstiealley) July 28, 2020
Le reazioni degli addetti ai lavori sono state in parte positive, ma non sono mancate le proteste, anche severe. Su Twitter, l’attrice statunitense Kirstie Alley ha definito la decisione “orwelliana” e “una disgrazia per gli artisti di tutto il mondo”( in alto). In Italia questo cambio delle regole ha dato adito a critiche e ironie, da parte di produttori e artisti. Andrea Occhipinti, fondatore di Lucky Red e amministratore delegato di Circuito Cinema ha dichiarato: “Gli Stati Uniti mi sembrano un Paese schizofrenico che va per estremi. In strada vediamo afroamericani ammazzati dalla polizia, poi fanno queste cose di super tutela. Le minoranze andrebbero tutelate nella società civile.” Gabriele Muccino, che negli Stati Uniti ha vissuto fino a quattro anni fa parla di ‘ossessione per il politically correct‘ da parte della società americana e aggiunge:“i parametri della censura si sono inoltre sempre più estremizzati negli anni togliendo via via ai film moltissimi spigoli interessanti; l’essere ossessivamente politicamente corretti è di fatto una spirale di paranoie che non avranno mai fine. E soprattutto non si può fare arte se i paletti sono così tanti e così limitanti da assomigliare a quelli che vengono messi per la visione di un cartone animato della Disney”.
La circostanza che i nuovi criteri siano stati promessi dopo la terribile morte di George Floyd, che ha scosso milioni di americani e dopo le dure parole dell’attore afroamericano John Boyega, il quale ha apertamente dichiarato che la Disney abbia sfavorito il suo personaggio nel cast della nuova trilogia di Star Wars solo per motivi razziali, non deve sorprendere. Ritengo che questa scelta sia frutto di una reazione emotiva e spero sinceramente che l’Academy ci ripensi, come avvenuto un paio di anni fa, quando era stata ventilata l’ipotesi di escludere alcuni premi dalla cerimonia di assegnazione. L’inclusione e l’integrazione sono processi naturali, che si sviluppano attraverso cambiamenti prima di tutto culturali. Comprendo l’intento dell’Academy che è lodevole, ma siamo davvero sicuri che un’imposizione sia scelta migliore? Trovo molto triste che nel 2020, , mentre è ancora in corso una pandemìa, questa sia ancora considerata l’unica strada percorribile: da appassionato non posso credere che la rinuncia alla libertà e alla creatività, alla base del cinema come mezzo d’espressione, sia preferibile a un’evoluzione che parta dal basso, da coloro che vivono e respirano cinema.