Un film sulla battaglia di una madre coraggio per riprendersi suo figlio, raccontata con un’interessante gamma di chiaroscuri. È Niente da perdere, debutto cinematografico nella finzione di Delphine Deloget, presentato nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes del 2023 e incentrato sulla (dis)avventura esistenziale di una madre lavoratrice single con due figli a carico.
Il più piccolo, Sofiane, resta gravemente ferito in un brutto incidente domestico e da quel momento i servizi sociali lo allontanano da casa. Un incubo per qualsiasi madre, e infatti Sylvie, la protagonista interpretata da Virginie Efira, non ci sta, decide di intraprendere una durissima battaglia per riottenere a tutti i costi la custodia di suo figlio.

La chiave più interessante e originale della scrittura di questo dramma insieme familiare e sociale dalla tensione costante è la caratterizzazione obliqua della protagonista, presentata da subito come tutt’altro che un’eroina virtuosa. È una madre imperfetta e piena di ombre, che compie una serie di errori e risulta anche psicologicamente poco stabile.
Niente da perdere cede presto il passo a un enorme dibattito etico a cui viene chiamato a partecipare direttamente lo spettatore: è più giusto restituire un figlio alla propria madre, o proteggere un minore e preservare la sua serenità, tutelandolo dall’intervento potenzialmente nocivo di sua madre?.
Un interrogativo che resta sospeso, mentre si assiste a una delle migliori performance dell’attrice di origine belghe Virginie Efira, tra le interpreti più interessanti del panorama europeo, che qui interpreta in modo convincente, viscerale e a tratti memorabile la protagonista, una donna proveniente da un contesto di grande fragilità sociale che come il titolo ben recita non ha “niente da perdere” ed è pronta a rischiare tutto pur di riprendersi suo figlio (interpretato dal bravo Alexis Tonetti).

La sequela infinita di pratiche, permessi, terapie, appelli e incontri con gli assistenti sociali sono il faticoso quanto fedele resoconto di un’ampia ricerca che la regista ha compiuto in prima persona sul sistema dell’assistenza all’infanzia francese, specie nei casi di abusi sui minori. Il risultato è una storia appassionante, ansiogena, angosciosa, ma soprattutto forte della realtà che affronta e racconta senza mezze misure.
Una storia di resistenza e lotta, che nel mostrare quanto possa essere disumanizzante e alienante tutta la macchina amministrativa del sistema giudiziario, specie per una madre sola contro tutti, ha il merito di presentare la stessa vicenda secondo una moltitudine di prospettive: quella della madre, che si vede il mondo crollare addosso e cerca di reagire con rabbia e determinazione a un intero sistema che le rema contro, ma anche quelle degli assistenti sociali, consapevoli dell’esistenza di genitori disfunzionali.
Funziona la scelta narrativa e registica di non parteggiare apertamente per nessuna posizione in particolare, ma lasciare sospesa la questione su quale sia, in fondo, la vera giustizia. Seguendo di fatto la lezione di Ken Loach: il cinema resta un mezzo potente per porre domande.